giovedì 2 ottobre 2025

Reportage di Vanessa Corigliano

I prati di Kore

Il 30 aprile la mia classe, con la prof. Preta, è tornata al castello di Vibo Valentia. Esso sorge dov'era ubicata grosso modo l'Acropoli di Hipponion, che in parte occupava con i suoi templi le vicine alture vicine, Cofinello e Cofino. Nonostante la prima fase di costruzione della struttura venga volgarmente attribuita all'età normanna, in realtà risale al periodo svevo, quando Matteo Marcofaba, governatore della Calabria, venne incaricato da Federico II di ricostruire quello che venne detto poi il Borgo Novo. Il castello, ampliato da Carlo d'Angiò nel 1289, assunse più o meno un aspetto simile a quell'odierno. Rafforzato dagli Aragonesi nel XV secolo e rimaneggiato dai Duchi Pignatelli, signori di Monteleone tra il XVI e il XVII secolo, perse quasi del tutto la funzione militare, assumendo quella di abitazione nobiliare. Il secondo piano fu demolito di proposito, in quanto pericolante, a causa dei danni riportati dopo il terremoto del 1783. Il castello presenta oggi delle torri cilindriche, una torre speronata ed una porta ad una arcata di epoca angioina.
Nella storia di Monteleone si racconta di una donna molto coraggiosa: Diana Recco. Nel 1502, dopo essere stato feudo dei Brancaccio, Monteleone riprende il libero status di città demaniale, condizione che però durerà pochissimo. Infatti sei anni dopo, Ettore Pignatelli, sulla base di documenti contestati dai nobili di Monteleone, fa occupare la città dalle sue milizie. Il conte asserisce di averla acquistata in feudo nel 1501 dal defunto re d’Aragona, ma di non essersi mai recato per prenderne possesso per alterne vicende, aggiungendo che il suddetto privilegio gli fosse stato confermato da re Ferdinando III nel 1506. Pignatelli affida il compito di prendere la città a Giovanni Del Tufo (o Lo Tufo), uditore del Re e Barone di Lavello in Lucania, che attraversa le mura angioine di Monteleone a capo di un drappello di sgherri e, tra le ostilità dei cittadini, si impossessa del maniero federiciano. Qui il Del Tufo, trascorsa una settimana, nel corso della quale si adopera ad assoldare mercenari, convoca i capi della rivolta con il pretesto di trattare, ma affoga il loro urlo di libertà nel sangue. Quando l’alba con le sue dita di rose cominciava a colorare le volte oscure del cielo, apparvero agli sguardi dell’atterrita città i sette cadaveri degli infelici monteleonesi che penzolavano e facean mostra sanguinosa di sé dai merli del castello. Un destriero chiede vendetta per i sette uomini uccisi in così tragico modo. All’alba di un bel giorno esso smette di scalpitare per le vie di Monteleone. Diana Recco, figlia e sorella di due dei sette martiri, decide di compiere la vendetta tanto attesa. Da piccola non aveva potuto farlo, ma adesso ha la forza e la ferma determinazione perché avvenga il compimento di un ineluttabile fato. Nella primavera di un bel giorno di inizio ‘500, in sella a un cavallo bianco, parte per recarsi a Lavello, dove Giovanni Del Tufo risiede. Nel centro lucano sono in programma le nozze della figlia del barone, Maddalena, con Ludovico Abenavoli. Egli nel 1503 aveva partecipato alla disfida del 13 febbraio contro i Francesi a Barletta, ragione della sua fama presso i posteri. Fuggito da Terni dopo avere visto la sua fidanzata Biancofiore in braccio a un altro, aveva successivamente sposato Letizia Asprella e ora in seconde nozze è pronto ad impalmare Maddalena Del Tufo. Nel 1519 Diana Recco si vendica ed uccide Giovanni Del Tufo. Dopo fugge e di lei non si sa più nulla. Viene accolta in qualche convento, come avviene spesso in quegli anni, specie dopo fatti di sangue. Tra storia e leggenda, Diana rappresenta l’esempio di una eroina che ha dato tutto per ottenere giustizia.
La professoressa Preta – dopo averci narrato questa leggenda popolare - ci ha fatto visitare la bella mostra “I Prati di Kore”, frutto di un ambizioso progetto culturale, che nasce da un proficuo accordo di collaborazione tra la Direzione regionale dei Musei di Calabria, guidata da Filippo Demma, e il Polo per l’Innovazione, la Cultura e il Turismo “Cassiodoro”. Si tratta di un approfondimento sull’universo femminile antico in chiave contemporanea. Poiché se la società greca antica fu profondamente patriarcale e maschilista, è altrettanto vero che per i Greci furono le donne, e non gli uomini, a rappresentare al meglio, con il loro essere, l’intera umanità. Fu l’universo femminile, e non quello maschile, a dominare il mito, ovvero quel sistema narrativo creato dai Greci (e insuperato da ogni altra cultura), volto a spiegare l’origine e il significato più profondo dei fenomeni umani e del cosmo. Tanti sono i personaggi femminili indimenticabili della letteratura greca, che hanno dato volto alle mille sfaccettature del pensiero e dell’agire umano. Antigone ad esempio, che vive ancora oggi in centinaia di testi di tutte le lingue, a esprimere il primato della legge morale su quella dello Stato, corrotta da periodi di oscurantismo e negazione dei diritti universali. E altrettanto numerose le divinità femminili, come la “nostra” Persefone.
Questa giornata museale è stata perciò un’ennesima esperienza molto intensa!

martedì 30 settembre 2025

Reportage di Irene Varì

I prati di Kore

Giorno 30 aprile, insieme ai miei compagni e alla professoressa Preta, mi sono recata di nuovo al castello normanno-svevo di Vibo, stavolta per visitare la mostra “I prati di Kore”. Partiti verso le 10:30, siamo giunti alla méta alle 11:00.
Mentre camminavamo, abbiamo ripassato la storia del castello. Esso è un’imponente fortezza situata sull’acropoli della città. Avviato nell’XI secolo dai Normanni, ha subito nei secoli le influenze di diverse dominazioni, come quella angioina e aragonese. Caratterizzato da imponenti mura, torri e cortile interno e da un camminamento di ronda che offre una suggestiva vista panoramica, che a colpo d’occhio abbraccia mare, monti e tutta la città sottostante. Il castello ha preso origine dai Normanni, che costruirono un torrione come parte del sistema difensivo più esteso. Poi vennero gli Svevi, una dinastia tedesca che regnò sul Regno di Sicilia e di Napoli, dopo la morte dell'ultimo sovrano normanno.
Ruggero fu uno dei più importanti sovrani normanni, fondatore della Contea di Sicilia. Anche se non è specificamente associato alla costruzione del nostro castello, la sua influenza si sente, come d’altronde la presenza normanna a Mileto, Arena, e in generale nella zona delle Serre vibonesi. Ruggero creò un potente regno nel Mezzogiorno, dove contribuì alla fusione delle culture normanna, latina e araba.
Nel XIII secolo, Federico II di Svevia fu uno degli imperatori più noti del Medioevo europeo, ed era detto “Stupor mundi”. Imperatore del Sacro Romano Impero, si può considerare il successore di Carlo Magno. Fu re di Sicilia fino alla sua morte (1250). Certo fu più direttamente coinvolto nella costruzione del castello di Vibo, lasciandovi un’impronta indelebile. Secondo me il castello è davvero impressionante sia dal punto di vista storico che architettonico, testimonianza affascinante del passato. Entrarvi è come fare un viaggio nel tempo!
Sul prato antistante il castello, seduti in circolo, abbiamo narrato una leggenda del volgo. Il popolo di Monteleone infatti trasmette una favola che la nostra prof. ha conchiuso nella “Ballata di Diana Recco”, recitata in vernacolo. Si narra che i Sette Martiri di Monteleone, schierati contro i duchi Pignatelli, sono decapitati. A guardare inorridita le sette teste che pendono dai merli del ‘superbo maniero’ c’è una bambina: Diana Recco, che aspetta dieci anni per vendicarsi, essendo figlia e la sorella di due dei sette eroi uccisi. Damigella alla corte ducale dei Pignatelli, bella popolana che tutti vorrebbero amare, si mantiene illibata perché così la sua vendetta avrà senso se non sarà legata a nessuno, libera di scegliere la “bella morte”. Al matrimonio della figlia del barone Lo Tufo - che aveva infeudato per conto dei Pignatelli la civitas a tradimento – pugnala a morte quest’ultimo, fautore della decapitazione dei martiri di Monteleone. Una leggenda legata al castello, che eternizza la nostra civica paladina!
Quindi la prof. ci ha illustrato la mostra I Prati di Kore. Il mito di Kore, o Persefone è uno dei più affascinanti del pantheon greco. Kore era la figlia di Demetra, la dea della fertilità e dell'agricoltura. Figura di bellezza straordinaria, rappresentava la primavera e la rinascita. Un giorno, mentre raccoglieva fiori in un prato, fu rapita da Ade, il dio degli inferi, che se ne innamorò. Non era sola al momento del rapimento, con lei vi erano le compagne, le Ninfe. Ade la portò con sé negli inferi, dove la convinse a diventare sua regina, offrendole il frutto del melograno, che rappresentava il legame tra sposi. La madre Demetra, disperata, fece diventare la terra sterile, causando una terribile carestia. Gli dei intervennero per evitare il disastro e convinsero Ade a restituirle Kore, ma poiché aveva mangiato i semi del melograno, doveva rimanere con lo sposo per una parte dell'anno. Così, Kore trascorreva sei mesi con sua madre sulla terra, durante la quale la natura rifioriva e si manifestava la primavera, e l'altra parte dell'anno con Ade negli inferi, e la terra ‘si addormentava’ e iniziava l'autunno e a seguire l’inverno.
I Greci identificarono proprio le campagne di Hipponion come luogo del mitico rapimento di Kore, poiché qui, più che altrove, era particolarmente radicato il culto della dea, perché Hipponion era “figlia” di Locri, dove Persefone era veneratissima. Le ipponiati la adoravano, indossando, durante le feste in suo onore, corone di fiori uguali a quelle intrecciate dalla dea al momento del rapimento.
Ecco spiegato il titolo della mostra: I prati di Kore, che muta l'area verde del museo vibonese in un giardino delle delizie! Essa nasce dalla volontà di far riscoprire la figura femminile antica. La storia ci svela che quella greca antica fu una società patriarcale. Ai soli uomini della polis era riservata ogni libertà, mentre le donne vivevano nel gineceo, recluse nell’oikos. Tanti però sono i personaggi femminili che dimostrano di essere liberi sia nella letteratura (Elena, Penelope, Clitemnestra, Antigone… e molte altre) come nel campo religioso, appunto Persefone o Artemide. Senza donne così non sapremmo cosa siano l’amore, il dolore, la colpa. Le figure femminili ne “I prati di Kore” diventano simboli di fertilità, rinascita e protezione della natura. Recita il sottotitolo: Storie di antiche donne vibonesi. Ospiti della torre del castello, elle riprendono vita per noi!
Inoltre Hipponion, insieme a Terina, antica Lamezia, venerava una dea misteriosa: Pandina Eiponieon, “Pandina degli Ipponiati”: così viene definita la divinità raffigurata sulle monete in bronzo che la polis emette tra la fine dei IV e gli inizi del III secolo a.C. La dea è vestita con una lunga tunica, al di sopra della quale indossa una corta veste aderente con scollo a V, fermata in vita da una cintura che mette in risalto le forme. In testa è presente nella gran parte dell’iconografia un diadema, segno regale. Secondo una leggenda, a Hipponion era “La Giustiziera”, una figura imperiosa di dea vendicatrice quale appare sulle monete. Il suo nome in greco antico vuol dire: “Tutta paura” o “Straordinaria”. Esiste, inoltre, la favola orale di Pandina. Donna di straordinaria bellezza, la sua vita fu segnata da una profezia che predisse la distruzione della terra natale. Pandina decise di fare tutto ciò che era in suo potere per proteggere il popolo e si rivolse agli dei per chiedere aiuto e fu ricompensata con poteri magici, ma morì in battaglia. Un’altra leggenda intrisa di coraggio e sacrificio per il bene comune.
Il castello, luogo perfetto da esplorare per riflettere sulla storia, ospita dunque un tesoro!
Visitare la mostra è stata un’esperienza indimenticabile, che ha permesso di connettermi con l’Antichità che studio sui libri di Greco e Latino. “I prati di Kore” è un’iniziativa che unisce la bellezza della natura circostante il castello con la creatività che permette di rileggere l’Antichità con l’idea di trasformare uno spazio verde in un luogo per celebrare Kore, associata alla primavera e alla rinascita. Credo che sia un esempio positivo quando il passato e il contemporaneo interagiscono, arricchendo il patrimonio culturale della comunità e offrendo nuove prospettive sulla relazione tra arte, natura e mitologia.
Questa giornata al castello mi ha davvero acculturata! Acculturarsi è fondamentale perché dà la possibilità di ampliare le prospettive su ciò che è possibile raggiungere nella vita. La mia gratitudine alla professoressa per averci accompagnati al castello. Grazie alla sua guida entusiastica, abbiamo vissuto un'esperienza educativa. La sua passione per l'arte e la cultura ha reso la visita ancora più speciale!

domenica 28 settembre 2025

Reportage di Alessandro Mazzotta

I prati di Kore

Martedì 30 aprile abbiamo svolto l’ultima giornata dedicata al progetto Voci e volti della città, organizzato dalla prof.ssa Maria Concetta Preta, con la visita alla mostra allestita presso il Museo Archeologico cittadino, dal titolo “I prati di Κόρη”. Incentrata su alcune figure femminili dell’antica Hipponion nel periodo ellenico, l’esposizione è stata inaugurata il 28 febbraio, per concludersi lo stesso giorno del prossimo anno. È a cura del Direttore Maurizio Cannatà, che le ha destinato la Torre Nord del castello, risalente al XVI secolo. Ed è proprio su questo mastio d’epoca sveva che si consuma la leggenda, intrisa forse di un fondo di verità, di una delle più celebri donne vibonesi: Diana Recco. La sua ‘storia’ affonda le radici nel XVI secolo: nel 1508 Monsleonis viene occupata militarmente dai soldati di Ettore Pignatelli, capeggiati da Giovanni Del Tufo (o, secondo altri, Lo Tufo). Fra le accese proteste della popolazione, capeggiata da un’oligarchia di nobili, i suoi sgherri marciano fino al castello, del quale prendono possesso. Con il pretesto di trovare un accordo bilaterale, il neo-despota Del Tufo convoca i capi dell’insurrezione, uccidendoli a tradimento ed esponendo i loro cadaveri, come racconta l’esimio storico monteleonese Giovan Battista Marzano, sui merli della fortezza federiciana, a mo’ di avvertimento per tutti i rivoltosi ancora speranzosi. Coloro che sono stati brutalmente ammazzati avevano nome e cognome, riportati fedelmente sempre dal sopracitato Marzano: Giovanni e Ortensio Recco, Giambattista Capialbi, Domenico Capialbi, Francesco d’Alessandria, Sante Noplari, Tolomeo Ramolo. Diana Recco, parente dei due Recco, si vendica uccidendo Lo Tufo nel giorno delle nozze della figlia, accoltellandolo al cuore. A lei la professoressa Preta, sfruttando il suo talento da scrittrice, ha dedicato una poesia, naturalmente in dialetto, e un intero romanzo, dal titolo L’ombra di Diana.
La mostra, purtroppo, non dispone di moltissimi pezzi, ma, come fanno giustamente notare la docente e il suo fido assistente e blogger Ivan Fiorillo (in prima linea in ogni suo programma), è un bene poiché in tal modo lo spettatore può apprezzare sino in fondo la bellezza di ogni manufatto, con tema principale, come già detto, la donna dell’antica colonia greca. Persefone stessa, che dà il nome al progetto, è stata una figura divina ipponiate di primo piano: alcune versioni del mito che la riguarda identificano proprio la terra vibonese come luogo del celeberrimo rapimento, operato dallo zio Ade che la costringerà poi a diventare sua sposa. Più spesso, comunque, si tende a ritenere la città siciliana di Enna come “reale” teatro del mito. Tra i pezzi esposti, è da notare la testa di basanite ritrovata in una tenuta d’età romana marittima, che era stata prestata agli Stati Uniti (a Princeton) per lungo tempo, prima di fare ritorno a Vibo Valentia.
Nella seconda e ultima sala è presentata la storia della “laminetta orfica”, presente nel museo ma da tutt’altra parte, una delle pochissime a essere mai state ritrovate: realizzata in oro, è stata ritrovata in una tomba di una ragazza giovane, attribuita al V secolo a.C.; la sua superficie è decorata con una minuziosa calligrafia in lingua greca, il cui testo recita alcune indicazioni su come comportarsi una volta che l’anima del seguace dell’orfismo sia giunta nell’aldilà, liberandosi del (fastidioso) corpo. Sono disposti, inoltre, lungo le pareti molti vasi e statuette, in apposite teche munite di utili didascalie.
Giunto alla fine del mio percorso di formazione annuale, posso senz’altro affermare di essere stato avviato a un’esperienza molto positiva che ricorda come non serva andare lontano per trovare le tracce dell’antichità.
Un’attività, questa del 30 aprile, che valorizza enormemente il nostro sconfinato, ma poco apprezzato patrimonio culturale, che sembra essere disprezzato e tenuto in scarsa considerazione persino dai vibonesi stessi. Ringrazio dunque persone come la mia insegnante, che fanno del proprio mestiere una passione, in veste di guida alle nostre bellezze. Come lei ama ripetere, se è possibile, è sempre meglio scegliere la restanza, poiché è grazie al coraggio e all’amore di chi opta per la nostra terra che possiamo sperare di arrivare, un domani, al suo rilancio. Il quale, stando così le cose, rimane un miraggio.

giovedì 25 settembre 2025

Reportage di Aurora Lo Mastro

I prati di Kore

A dicembre ci siamo recati al museo archeologico statale Vito Capialbi per una visita guidata dalla professoressa Preta, durante la quale abbiamo visitato le sale destinate all’esposizione dei vari manufatti di epoca greca e latina e abbiamo ammirato il monetiere del conte Capialbi.
L’ultimo giorno di aprile è avvenuta la quarta e ultima uscita di Voci e volti della città all’interno delle salette della mostra “I prati di Kore”. Questa volta, in nostra compagnia, vi era anche il blogger Ivan Fiorillo, che spesso collabora con la nostra insegnante in vari progetti.
Seduti sul verde prato, sotto il sole primaverile, io e la classe abbiamo ascoltato attentamente la storia delle origini di Vibo, narrata dalla professoressa. Il castello è impropriamente detto di Ruggero il Normanno, ma più storicamente di Federico II di Svevia.
Il cronista Goffredo Malaterra racconta che Ruggero arrivò in questi territori, devastati dalle incursioni saracene, e trovò i ruderi della vecchia Hipponion. La cosa buona fu che eresse una grande torre, che è un cuneo, quasi la prua o prora di una metaforica nave che si slancia verso la collina detta “il Cofino”, dove vi erano i resti di un santuario dedicato a Demetra e alla figlia Kore. Successivamente privò della cattedra episcopale Vibona (detta poi Borgonovo e poi Monteleone da Federico di Svevia) e la portò a Mileto, voluta come sua capitale. Mileto odierna non è la vecchia città, rasa al suolo dal terremoto del 1783, che però non distrusse la torre normanna di Vibo. I suoi abitanti non amavano la figura di Ruggero: secondo il popolo e la sua inesausta fantasia, egli è destinato per una malia a rimanere sepolto in uno dei cunicoli del castello. I Monteleonesi maledissero Ruggero - per averli defraudati della cattedra episcopale - con un incantesimo che si perpetua nei secoli. Egli sul dorso del suo cavallo nero, nei cunicoli sotterranei, cerca di salvarsi dai saraceni e pensa di poterlo fare raggiungendo la Spelonca di Bivona, ma non è così perché è incatenato all’incantesimo dunque al castello: il cavallo si imbizzarrisce e lo riporta nel castello, dove è incatenato per sempre il suo fantasma.
Un’importante figura è un’eroina che fa parte delle leggende, e non è Kore, che appartiene al mondo dei miti greci. Questa leggenda del 1500 è intrisa di amore verso la propria terra, e venne narrata dal popolo oralmente. La professoressa Preta ha composto una favola in versi in dialetto, una ballata popolare per Diana Recco, l’eroina di cui parliamo. I merli del castello erano fortificazioni sulla sommità dove si ponevano le sentinelle per fare le veglie, per proteggere dagli invasori, che furono i Pignatelli, ai quali si opposero i Sette Martiri di Monteleone, che nel castello vennero decapitati e a guardare le teste che penzolavano dai merli c’era Diana Recco, figlia e sorella di due dei sette martiri, e per questo si vendicò. Dieci anni dopo divenne damigella alla corte ducale dei Pignatelli, tutti si innamoravano di lei ma si mantenne vergine. Durante il matrimonio della figlia del barone Lo Tufo - o Del Tufo - uccise quest’ultimo, poiché aveva ordinato la decapitazione del padre e del fratello. Dunque la favola versificata narra la vendetta di Diana.
Una volta entrati nel museo, abbiamo ammirato la mostra in cui protagoniste sono le antiche donne vibonesi: Diana Recco e Kore, poiché Monteleone prima Hipponion fu la loro città. I prati di Kore è una metafora per alludere alla città di Hipponion, dove i prati sono un paradiso, dove la Fanciulla, nel mito, raccoglieva i fiori con le amiche, magari per farne una corona da dedicare a una divinità o semplicemente per divertirsi, mettendo i fiori nei capelli. Ma proprio su questi prati la ragazza venne rapita e portata dallo zio Ade nell’oltretomba, dove divenne sua sposa. C’erano due varianti del mito: la più accreditata racconta che la giovane fosse stata rapita ad Enna, città siceliota fondata dai Greci; un’altra variante nella mitografia sacra è che Kore si trovasse con le sue amiche sui prati di Hipponion, vantati da tutti coloro che hanno scritto della città. Possiamo parlare di: Duride di Samo, etnografo ellenistico; Timeo di Tauromenio, storico di Taormina; Strabone di Amasea; ancora nella tragedia intitolata Alessandra, di Licofrone di Calcide, si parla di Hipponion. Secondo una variante del mito di Eracle, egli sarebbe passato da Tropea e Vibo; oppure secondo altri miti Oreste sarebbe venuto nel tempio di Proserpina al mare di Hipponion, perseguitato dalle Erinni vendicatrici dopo aver ucciso sua madre. Possiamo dunque affermare che la nostra città è sempre stata presente nei miti.
All’interno della sala abbiamo visto diverse effigi femminili, perché, come dice la professoressa, attraverso la donna passa la storia reale. Abbiamo potuto ammirare come le donne si vestivano, come si acconciavano, i loro sorrisi o i loro desideri; ancora un busto in basalto nero della principessa d’epoca Giulio-Claudia Messalina oppure gli ex voto che le donne donavano alla dea Demetra e alla figlia Kore al santuario loro dedicato.
Ivan Fiorillo, brillante divulgatore locale, è intervenuto chiedendo alla professoressa cosa ne pensasse dell’allestimento della mostra, e lei ha risposto che, nonostante lo spazio ristretto, gli addetti ai lavori hanno sfruttato nella maniera più idonea le due salette del laboratorio del vasaio; ha spiegato che fare una mostra vuol dire selezionare i particolari più importanti, senza accumulare inutilmente. La mostra non presenta un accumulo di materiale che potrebbe distrarre il visitatore, bensì c’è una scelta ben precisa che ci guida in uno spazio ristretto ad osservare la tipologia delle antiche donne vibonesi.
Dopo la lunga introduzione della professoressa, grazie alla quale ci siamo molto acculturati, siamo passati all’osservazione della mostra, spiegata dai panelli. Prima abbiamo visto Artemide, la dea della caccia ed eterna ragazza dell’Olimpo, così la chiama la professoressa, poiché si è svestita dei panni classici da donna e ha scelto come vivere, da sola, prima di tutto accorciando il chitone. Io sono mia, così diceva Artemide, che non aveva bisogno di mariti, ma che bastava a sé stessa. Tanti volti ha Artemide: determinata, scalmanata nelle corse nei boschi, paurosa quando sconfigge i nemici, ma anche pietosa quando si intenerisce davanti al Ifigenia e le salva la vita. Successivamente abbiamo visto un vaso antropomorfo, ovvero umanizzato, detto askos, e la statua di un volto femminile con il famoso sorriso ionico, un sorriso accennato che non mostra i denti, inventato dagli scultori della Ionia. Dal mito siamo passati alla storia, ammirando la raffigurazione di una principessa che ebbe grande potere alla corte dei Giulio-Claudii, la corte romana dopo Augusto, che inizia da Tiberio, figlio di Livia. Tiberio, infatti, faceva parte della dinastia Giulia per adozione perché era stato adottato da Augusto nel 4 d.C., e della gens Claudia per nascita. Sotto questa dinastia vivevano delle principesse molto belle e con una acconciatura elaborata, che abbiamo potuto vedere su una delle statue. Secondo un’interpretazione, lei era Valeria Messalina, moglie dell’imperatore Claudio. Si pensa che ella avesse dei possedimenti in una villa marittima di Vibo, poiché la statua è stata trovata vicino al mare; oppure che la famiglia che possedeva la villa fosse imparentata con lei, e dunque esponeva il suo ritratto. Per finire, siamo entrati nella saletta accanto per osservare un’esposizione virtuale della laminetta orfica, la quale abbiamo avuto il piacere di vedere nel mese di dicembre.
Si è concluso così il percorso disciplinare Voci e volti della città. Il modo alternativo di fare lezione che ci ha proposto l’insegnante è stato apprezzato, poiché interessante e coinvolgente. Non possiamo renderci conto delle bellezze della nostra città, della particolarità degli antichi manufatti greci e latini, delle storie dei grandi personaggi della nostra antichità fin quando non le viviamo a pieno, e possiamo dire di averlo fatto grazie alle varie uscite didattiche, accompagnate naturalmente dalla conoscenza della professoressa, che con molto piacere ci ha trasmesso. Spero dunque che i prossimi anni potremo avere il piacere di conoscere ancora una volta ciò che ci è sconosciuto, che eppure è così vicino a noi.

lunedì 22 settembre 2025

Reportage di Sofia Gagliardi

I prati di Kore

Martedì 30 aprile la prof. di Latino e Greco, Maria Concetta Preta, ha accompagnato la nostra classe in un’uscita organizzata da lei nell’ambito del percorso didattico pluridisciplinare Voci e volti della città, che prevede la conoscenza diretta del territorio cittadino per sviluppare una conoscenza civico-cittadina atta a favorire la relazionalità fra gli allievi.
Siamo partiti intorno alle ore 10:00 e dopo circa mezz’ora, attraverso le vecchie vie della città, siamo giunti a destinazione, ossia al Museo Archeologico Nazionale Vito Capialbi. È la seconda volta che veniamo quest’anno. Entrati nel castello da un grande cancello in ferro, ci siamo fermati nel cortile ampio, ricco di cespugli ben curati e di verde, dove la prof. ha iniziato a parlare della mostra “Prati di Kore” che avremmo potuto ammirare una volta entrati. A un certo punto, ha recitato una poesia, in dialetto, dedicata a Diana Recco e pubblicata in uno dei suoi libri dal titolo: Nove come le Muse. Subito dopo, siamo entrati nei locali del Museo, accompagnati, oltre che dalla nostra prof., anche da un giornalista, Ivan Fiorillo, a cui la professoressa ha autografato una copia del suo libro.
Che meraviglia questa mostra che a dicembre non c’era! Nei locali della bottega del ceramista, che mi sono apparsi subito accoglienti, prevale il verde scuro che crea un’atmosfera stimolante che invita alla riflessione. Sale ricche di reperti storici ben curati e conservati ed io, insieme ai miei compagni, osserviamo con stupore gli oggetti esposti, “rapiti” dall’ambiente che ci rimanda alla nostra storia. La prima opera che abbiamo ammirato è una piccola statua in marmo rosa raffigurante Artemide, dea della caccia, rinvenuta nel complesso termale romano in via S. Aloe, risalente al I secolo d.C. Poi, un vaso per vino a forma di testa femminile che apparteneva alla collezione del Conte Vito Capialbi e che risale agli inizi del V secolo a.C. Ancora, una tazza configurata per vino (Kantharos) a forma di testa femminile bifronte, proveniente dal santuario greco di via Scrimbia risalente agli inizi del V secolo a.C. Subito dopo, fra luci soffuse a led di colore azzurro con sfumature in rosa, ci siamo trovati difronte a un bel busto femminile raffigurante una giovane della dinastia Giulio-Claudia, proveniente dalla villa romana di località S. Venere, risalente al I secolo d.C.
La nostra prof. non ha perso tempo e ha iniziato ad illustrarci le caratteristiche delle statue facendo riferimento, appunto, alla mostra “Prati di Kore - storie di antiche donne vibonesi”, ospitata nella torre nord del castello. Essa racconta la storia di figure muliebri dell’antica Hipponion, fondata dai Locresi agli inizi del VI secolo a.C. poi divenuta Vibo Valentia in età romana.
Abbiamo scoperto che quella greco-antica fu una società profondamente patriarcale, in cui la partecipazione alla vita politica era roba da uomini, mentre le donne erano mogli e madri. Nonostante ciò, esse appaiono in modo preminente nel mito, creato per spiegare l’origine dell’universo. A parer mio, oggi viviamo in un mondo in cui il mito e le sue credenze sono relegate a un passato lontano, un mondo arcaico dove tutto sembra irreale e a volte dai toni fiabeschi. Sta a noi che affrontiamo studi classici far rivivere quel mondo che per secoli ha rappresentato la nostra storia!

domenica 21 settembre 2025

Reportage di Antonio Fucile

I prati di Kore

Nel suggestivo scenario del Castello di Vibo Valentia, la mia classe ha avuto il privilegio di partecipare a una straordinaria mostra intitolata "I Prati di Kore".
Accompagnati dalla professoressa Preta e dal giornalista Ivan Fiorillo, ci siamo immersi nelle profondità della cultura e dell'arte greca antica, esplorando i dettagli di questa mostra affascinante.
Il Castello di Vibo Valentia, con le antiche mura e il fascino storico, ha fornito il palcoscenico perfetto per questa esposizione. La sua atmosfera suggestiva ha aggiunto un tocco di magia all'esperienza complessiva, trasportandoci indietro nel tempo fino all'antica Grecia.
La nostra guida per questa ‘avventura culturale’ è stata la professoressa Preta, la cui conoscenza approfondita e la passione per la cultura greca hanno reso ogni momento della visita coinvolgente e illuminante. Con una voce che trasmetteva entusiasmo, ci ha condotti attraverso le sale della mostra, svelando i segreti e i significati celati dietro ogni opera esposta con illustrazioni dettagliate. Così le sculture eleganti e gli artefatti antichi hanno ripreso vita!
La presenza di Ivan Fiorillo ha aggiunto un elemento intrigante alla visita. Con il taccuino sempre in mano e gli occhi vigili, sembrava catturare ogni momento significativo e ogni dettaglio interessante. Le sue domande acute e le osservazioni puntuali hanno fornito ulteriori elementi per la comprensione dell'arte greca e del contesto storico della mostra. Alla fine della nostra visita de “I Prati di Kore”, ci siamo sentiti arricchiti non solo culturalmente, ma anche spiritualmente. Essa ha offerto uno sguardo affascinante su un'epoca passata e su una divinità venerata in Hipponion, Kore, facendoci capire di più il mito sacro e l’influenza duratura sulla società moderna.
In conclusione, è stata un'esperienza indimenticabile! Siamo grati alla professoressa Preta per questo nuovo viaggio attraverso il tempo e al giornalista Ivan Fiorillo per aver condiviso con noi le sue prospettive illuminanti. Speriamo che mostre così continueranno a educare le generazioni sull'importanza della cultura nel plasmare il nostro mondo.

giovedì 18 settembre 2025

Reportage di Gloria Grasso

I prati di Kore

Durante l'uscita didattica, prevista dal percorso didattico Voci e volti della città, avvenuta il 30 aprile, noi studenti della I A del Liceo Classico "M. Morelli", accompagnati dalla prof. M. Concetta Preta, abbiamo visitato la mostra "I prati di Kore" al Museo Archeologico Nazionale "Vito Capialbi".
Prima di recarci all'interno delle sale museali, abbiamo sostato sui prati antistanti il castello e conosciuto meglio la sua storia. Il prestigioso maniero è il simbolo di Vibo Valentia ed è considerato impropriamente il castello di Ruggero il Normanno, ma storicamente è di Federico II di Svevia. Lo storico Malaterra dice che Ruggero d'Altavilla si invaghì dei ruderi di Hipponion, detta Vibona, e li depredò per costruire la sua reggia a Mileto, mentre qui eresse una torre militare che si protende verso una collina dove si trovano i resti di un grandissimo santuario dedicato alla dea Madre e alla Figlia: Demetra e Kore. Successivamente Ruggero commise un errore: privò Vibona della cattedra episcopale e la portò a Mileto. Secondo alcune leggende il conte, a causa di alcuni incantesimi, fu costretto a rimanere sepolto in uno dei cunicoli del castello. Successivamente, sempre dalla voce narrante della prof., abbiamo ascoltato la sua ballata popolare dal titolo: "La ballata di Diana Recco".
Sette eroi di Monteleone avevano osato schierarsi contro i Pignatelli; perciò, venivano mozzate le loro teste. Tra il popolo, a guardare le teste che penzolavano dai merli del castello, c'era Diana Recco ancora bambina. Aspetterà dieci anni per vendicarsi, quando sarà damigella alla Corte Ducale dei Pignatelli e durante il matrimonio a Lavello di Lucania di Maddalena, figlia del barone Giovanni Del Tufo, che aveva infeudato per conto di Pignatelli Monteleone, lo pugnala. Diana esprime l'immensa voglia di libertà e di amore per la città. Tra storia e leggenda, rappresenta l'eroina che ha dato la vita per fare vendetta, o giustizia.
Entrati all'interno del castello, abbiamo visitato "I prati di Kore", costituita di opere conservate solitamente nei depositi del museo di Vibo, oppure frutto di scoperte recenti: un approfondimento sull'universo femminile antico in chiave contemporanea. La società greca fu patriarcale e maschilista. Ai soli uomini della città (polis) era riservata la partecipazione alla vita politica, mentre alle donne, custodi della casa (oikos), era affidato il ruolo di generare i cittadini del futuro. A questa "subordinazione" della donna all'uomo nella vita reale, tuttavia, corrisponde l'importanza della donna nel mito, ovvero in quel sistema narrativo creato dai Greci volto a spiegare l'origine e il significato di fenomeni naturali. Tanti poi sono i personaggi femminili indimenticabili della letteratura greca, specie delle tragedie e commedie, che hanno dato volto alle mille sfaccettature del pensiero e dell'agire umano. Fu Antigone, ad esempio, che vive ancora oggi sui palcoscenici del mondo, a esprimere il primato della legge morale su quella dello Stato. Numerose poi le divinità femminili, come Persefone e Artemide. Se non ci fossero le eroine e le dee non sapremmo cosa siano l'amore, il dolore, la purezza, il sacrificio, la colpa e tanti altri sentimenti umani.
La mostra "I prati di Kore, storie di antiche donne vibonesi", ospitata nella torre (XIV secolo) del castello medievale di Vibo Valentia, sede del Museo Archeologico Nazionale, racconta le storie di figure femminili legate al passato dell'antica Hipponion, città della Magna Grecia fondata dai Locresi agli inizi del VI secolo a.C., poi divenuta Vibo Valentia in età romana.
Per i Greci fu grazie a Persefone, la dea fanciulla (in greco Kore), che nacquero la primavera, l'alternanza delle stagioni, i cicli della natura e con essi il concetto di eternità della vita umana, che scorre di generazione in generazione e che non si interrompe neanche dopo la morte. Secondo il mito, la fanciulla, giocosa in un prato fiorito in compagnia delle Ninfe, protese le mani per cogliere un meraviglioso narciso, quando nel suolo si aprì una voragine da cui emerse il dio degli inferi, Ade, sul suo cосchio trainato da terrificanti cavalli neri alati. Kore fu trascinata nell'oltretomba, e dopo essersi cibata della melagrana offertagli dal dio, fu destinata a divenire per sempre la regina degli Inferi. Ma la madre Demetra, dea dell'agricoltura e della fertilità della terra, reagì disperata alla perdita della figlia, vagando sconsolata alla sua ricerca condannando l'umanità ad un lungo e arido inverno, fino a che Zeus, il padre di tutti gli dei, fu costretto a consentire il ritorno di Persefone sulla terra per sei mesi all'anno.
I Greci identificarono proprio le campagne di Hipponion come uno dei luoghi del mitico rapimento di Kore, poiché qui, più che in altri luoghi del mondo greco occidentale, era particolarmente radicato il culto della dea. Le donne della città la veneravano indossando, durante le feste in suo onore, corone di fiori analoghe a quelle intrecciate dalla dea al momento del suo rapimento. Kore-Persefone non era sola al momento del rapimento da parte di Ade. Con lei vi erano le sue giovani compagne di giochi, le Ninfe, le bellissime fanciulle figlie del fiume Acheloo, che per non essersi opposte al rapimento furono trasformate da Demetra in Sirene, creature mostruose dalla testa di donna e il corpo di uccello, inviate dalla dea in ogni angolo del mondo alla ricerca spasmodica della figlia. Le Sirene divennero, soprattutto in Magna Grecia, grazie alle dottrine del filosofo Pitagora, figure divine dalla somma sapienza, consolatrici con il loro canto e accompagnatrici nell'aldilà delle anime pure destinate alla salvezza.
Insieme a Persefone, a raccogliere fiori nel prato squarciato dalla biga di Ade vi era anche Artemide dea della caccia, della natura selvaggia, signora degli animali, protettrice della castità, della fertilità, del parto, delle giovani donne. In Magna Grecia, le due figure divine spesso si sovrappongono, tanto che lo storico Diodoro Siculo (I secolo a.C.) ricorda Persefone e Artemide come compagne di giochi, destinatarie della medesima educazione ed entrambe votate alla castità.
La Persefone hipponiate, non a caso, riassume in sé molte delle prerogative proprie di Artemide. Lungi dall'essere solo "sovrana degli Inferi", ella divenne qui divinità "poliade", guerriera e protettrice della polis, giunta al seguito dei coloni Locresi, fondatori di Hipponion, per rendere sacro il possesso greco delle terre indigene degli Osci. A lei i giovani dell'aristocrazia di Hipponion dedicavano le loro sontuose armi in bronzo, utilizzate durante le cerimonie di passaggio all'età adulta, mentre le fanciulle la onoravano offrendole oggetti da cosmesi e ornamenti personali, invocandone la protezione nei rituali di abbandono dell'infanzia e di propiziazione al matrimonio.
Abbiamo osservato la statuetta di un misterioso volto di una donna: una fanciulla dai grandi occhi neri che irrompe nel I secolo d.C., nella storia di Hipponion, ormai divenuta Vibo Valentia con i Romani. Molti sono gli interrogativi ancora irrisolti su di un'opera fino ad oggi sottovalutata rispetto alla sua vera importanza, che attrae per la finezza dell'esecuzione e su cui aleggia un velo di mistero in virtù di una bellezza straordinaria rimasta priva di identità. Il ritratto proviene da una ricca villa suburbana del litorale vibonese, ubicata in località S. Venere, nei pressi dell'attuale porto, sicuramente appartenuta ad un personaggio di rango sociale elevato. È scolpito nella basanite questo busto di donna, in origine posato su un pilastrino per formare un'erma, e raffigura una giovane con capigliatura lussureggiante, raccolta in un'artificiosa acconciatura che rielabora, secondo la moda femminile del regno di Claudio (41-54 d.C.), una pettinatura messa in voga da Agrippina Maggiore. L'opera è testimone di un tempo in cui la città di Vibo Valentia era una delle più ricche dell'Italia romana. Una città dai molteplici legami diretti con il potere imperiale, che ebbe Giulio Cesare come suo protettore (patronus), che accolse più volte l'oratore Cicerone, che ospitò nelle sue acque la flotta di Ottaviano, il futuro imperatore Augusto.
Pandina Eiponieon: Pandina degli Ipponiati, cosi viene definita la divinità raffigurata sulle monete in bronzo che la polis di Hipponion, governata da un'élite guerriera del popolo italico dei Bretti, emette tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C. La dea è vestita con una lunga tunica panneggiata, al di sopra della quale indossa una corta veste aderente con scollo a V, fermata in vita da una cintura che mette in risalto le forme. Sui capelli raccolti dietro la nuca è presente un diadema, simbolo di regalità. Gli attributi propri ne accrescono l'aura di mistero, rendendola difficile da definire e inquadrare rispetto a quanto noi sappiamo del pantheon greco. Forse una dea della fertilità agraria assimilabile a Demetra (e alla latina Panda)? forse la terrificante Ecate? forse la stessa Kore-Persefone nella sua veste di accompagnatrice delle anime dei morti (Psicopompa)? Pandina è una divinità ancestrale che aspetta ancora di rivelarsi a noi, come bene ci ha detto la nostra docente, che su di lei ha scritto il romanzo: Il sigillo della dea Pàndina.

martedì 16 settembre 2025

Reportage di Anna Bardari

I prati di Kore

Martedì 30 aprile si è tenuta l'uscita finale del nostro percorso Voci e volti della città e, guidati dalla nostra prof. Preta (insieme al blogger Ivan Fiorillo) siamo tornati al Castello di Monteleone, detto impropriamente di Ruggero il Normanno, ma storicamente di Federico II di Svevia. Nella metà del XIII secolo d.C. gli Svevi arrivarono dal Nord Europa nel Sud Italia tra la Puglia, la Basilicata, parte della Campania, la Calabria e la Sicilia. Federico in cima al Borgonovo - così chiamerà Vibona - trova la torre "speronata" normanna che si protende verso il Còfino, dove sono i resti del santuario di Demetra e Kore.
Fino al V sec. d.C. la città tardo-antica di Vibona era ancora abitata, seppur non come in passato: i monumenti classici diventavano pian piano dei ruderi; se ne erigevano di nuovi, ma meno splendidi. Le basiliche paleocristiane erano munite di battisteri, come quello situato in piazza San Leoluca, nel quale si bagnavano i catecumeni per diventare cristiani: le conversioni erano tante, il cristianesimo faceva proseliti anche presso gli adulti già pagani.
Il cronista Goffredo Malaterra è lo storico che ci parla di Ruggero il Normanno. Egli, quando arrivò in questo luogo, devastato da incursioni turchesche, trovò gli avanzi di Hipponion-Valentia, ma intuì l'importanza strategica del suo territorio. Il Gran Conte di Sicilia e Calabria sottrasse a Vibona la cattedra episcopale e la portò a Mileto, una delle sue capitali, poi distrutta dal terremoto nel 1783. Ruggero edificò qui solo una torre militare e privò Monteleone del soglio episcopale: ciò non fu cosa gradita!
Il castello è volgarmente intitolato a lui, ma i Monteleonesi non lo amavano, e nelle leggende popolari è destinato, per un incantesimo che si perpetua all'infinito, a rimanere incatenato in uno dei cunicoli del maniero. Ruggero sul dorso del suo cavallo nero, dalle segrete del "suo" castello pensa di raggiungere la salvezza perché stanno arrivando i Saraceni, e vuole arrivare alla spelonca di Bivona per prendere la via del mare: dunque vi sarebbero, secondo la fantasia popolare, delle gallerie che collegano il castello allo sbocco sul Tirreno. Ma ciò non avviene e l'incantesimo dura per sempre: il cavallo lo riporta indietro, fino al castello, dove l'anima sua sarà per sempre incatenata e da qui non uscirà mai: perciò il suo nome è sinistramente legato al castello.
Esiste una leggenda ricca di pietà, senso di libertà e ribellione al potere, di dolore e morte, che richiama alla passione infinita per Monteleone. A tramandarla, di bocca in bocca, fu il popolo, portatore di contro-verità rispetto alla storiografia ufficiale, scritta da storici cortigiani dei duchi Pignatelli, che questa storia non volevano sentire. Ma vox populi, vox Dei! Tale voce ha cavalcato l'onda dei secoli e a noi è arrivata, per bocca della nostra docente!
I Pignatelli erano i nuovi feudatari di Monteleone, ma i capi di una congiura, detti i Sette Martiri si opposero e furono trucidati dai vili scherani del duca, che volle infeudare a tradimento Monteleone. Nel popolo, a guardare le sette teste che pendevano dai merli del castello svevo, c'era una bambina, Diana Recco, che aspettò dieci anni per vendicarsi perché lei era la figlia e la sorella di due dei sette eroi! Sarà damigella alla corte ducale, bellissima ragazza che si mantiene pura perché solo così la sua vendetta avrà senso. Al matrimonio della figlia del Barone Lo Tufo, che aveva infeudato per conto dei Pignatelli la civitas, estrae dal corsetto un pugnale e uccide colui che aveva ordinato la decapitazione dei suoi cari. Non importa se sarà messa sotto i vincoli, non importa se sarà decapitata: avrà espresso l'immenso amore per la sua città, la cui leggenda è legata indissolubilmente al castello che eternizza la nostra eroina Diana Recco! Questa è la leggenda che la prof. ci ha narrato, lasciandoci col fiato sospeso.
Torniamo indietro nel tempo, all'epoca delle incursioni saracene. I Turchi venivano nel territorio per devastarlo, per violentare le donne, rapirle e portarle via per farne delle odalische o delle prigioniere, per trucidare gli uomini, per sgozzare i bambini e impadronirsi di ogni bene, non per creare qualcosa di stabile, ma per la furia devastatrice che contraddistingueva questi popoli barbari che dal mare li portava alla terraferma. Molti secoli prima dal mare erano giunti i Greci, che si insediarono sulle nostre coste, perché nell'entroterra c'erano gli Osci, e non solo insediarono alcuni scali e porti, ma crearono le colonie e le pòleis.
Il nostro territorio venne colonizzato dai Locresi, che dallo Ionio arrivarono al Tirreno per fondare la città di Kore: proprio per questo I prati di Kore è una metafora per alludere a Hipponion, le cui distese fiorite erano un paradiso, in cui la Fanciulla Hipponiate (Kore) raccoglie fiori per farne una corona insieme alle sue amiche, tra cui la ninfa Scrimbia. Kore, figlia di Demetra, è rapita da Ade, signore dell'oltretomba, che la porta negli inferi; le fa mangiare i semi di melograno: chi mangia i frutti dell'oltretomba sarà costretto a vivere lì per sempre.
Si tramanda che il ratto sia avvenuto ad Enna, città siceliota, ma un'altra variante nella mitografia sacra è che Kore si trovi sui prati di Hipponion.
In questa mostra allestita di recente abbiamo ammirato le effigi femminili, testimonianze di come le donne si vestivano e si acconciavano. Abbiamo scorto i loro sorrisi, gli ex voto che donavano a Demetra e a sua figlia Kore a cui era dedicato un santuario grandissimo, che però non abbiamo potuto visitare, perché il parco archeologico attualmente non è visitabile (che gran peccato!).
Tra le dee che abbiamo ammirato, c'è Artemide, l'eterna ragazza dell'Olimpo, colei che si è svestita dei panni della donna classica e si è autodeterminata: dimostrazione di questo è il taglio del chitone, che diventa una gonna corta, da donna libera e proto-femminista.
Poi abbiamo notato un vaso antropomorfo che si chiama askòs, che è femminilizzato e, per concludere, abbiamo osservato un'esposizione virtuale della Laminetta orfica.
Così si è conclusa la nostra passeggiata culturale alla scoperta delle voci e dei volti di Vibo, un'esperienza formativa che ci arricchisce di conoscenze e ci lascia la possibilità, attraverso la memoria, di sentirci parte viva del nostro territorio.

sabato 16 agosto 2025

Povertà ed esclusione sociale in Calabria: tra i motivi le carenze nella sanità e nell’istruzione

Sei ricercatori dell’Unical hanno messo ordine agli ultimi dati disponibili, rivelando disuguaglianze senza paragone in Italia e in Europa


La Calabria è povera, e le sue aree interne ancor di più. Estremo italiano tanto geograficamente quanto statisticamente: proprio come i suoi abitanti, proverbialmente testardi, si ostina ogni volta a figurare agli ultimi posti nelle classifiche nazionali e internazionali. Analizzando i recenti dati Eurostat e recuperando gli studi condotti sul campo, alcune ricercatrici e ricercatori dell’Università della Calabria (Domenico Cersosimo, Emanuela Chiodo, Sabina Licursi, Giorgio Marcello, Rosanna Nisticò, Emanuela Pascuzzi) hanno approfondito la natura della problematica, composta di vari fattori e dimensioni. Tra i risultati, pubblicati sull’autorevole Politiche Sociali de Il Mulino, la centralità delle carenze nella sanità e nell’istruzione nella piaga della povertà e dell’esclusione sociale.


Rischio povertà ed esclusione sociale

Il 2023 ha persino visto la regione insignita del valore più alto a livello europeo in termini di diseguaglianza economica: il reddito percepito dal quinto dei residenti più ricchi è stato 8,5 volte superiore a quello del quinto dei più poveri. I deficit dei servizi di cittadinanza, solitamente accentuati nelle aree interne, assumono qui dimensioni estreme e generalizzate a tutto il territorio; ne sono coinvolti centri e periferie, città e paesi dell’entroterra. Oltre a vantare la maggior percentuale di popolazione a rischio povertà o esclusione sociale in Europa, la Calabria si presenta spaccata nei propri meandri quasi in due società conviventi, che si equivalgono da un punto di vista quantitativo.

È un cittadino su due a rischiare la povertà o l’esclusione sociale: di fatto, metà dei calabresi sopravvive con l’acqua alla gola quotidianamente, mentre l’altra metà gode senza affanni di un relativo benessere materiale.


Ma le polarizzazioni al vecchio Bruzio piacciono; ed ecco che la distanza con la regione italiana più virtuosa svela sfacciatamente un divario senza confronto nel resto del Continente. Se porsi a paragone di chi ci circonda ha senso, notiamo come questo sia dieci volte più ampio di quello in Danimarca, il doppio di Germania e Croazia, oltre il triplo per la Grecia e quasi il quadruplo per la Francia. Nessun altro, nella Penisola, ha registrato un peggioramento nel rischio di povertà, nella bassa intensità lavorativa e nella grave deprivazione materiale tra 2022 e 2023; una botta d’un sol colpo sulle spalle del popolo calabrese.


La marginalizzazione delle aree interne

Dei comuni ivi insistenti, l’80% è definito “area interna”, che tradotto equivale a debolezza quali-quantitativa dei servizi pubblici essenziali (per di più, metà di questi è periferico o ultraperiferico).

Alla base degli svantaggi nel loro accesso al diritto alla salute, a dar retta ai rapporti meno datati, la desertificazione di servizi sanitari e sociosanitari, con i Livelli essenziali di assistenza inferiori alla soglia minima in qualsiasi area di riferimento: prevenzione, assistenza territoriale, assistenza ospedaliera. Poco personale, migrazione fuori regione, rarefazione di punti per la salute mentale e la continuità assistenziale, mortalità infantile accentuata, speranza di vita in buona salute una chimera. Meno sanità fa rima con più malattia; è la scienza a informarci che la mancata cura della propria salute attiva pericolosi processi sociali l’uno conseguenza dell’altro, dai disturbi della psiche all’incrinatura delle relazioni interpersonali, giungendo all’incapacità soggettiva (degrado cognitivo) o impossibilità oggettiva (costrizione a sostenere spese ingenti per curarsi) di gestire proficuamente le risorse di cui si dispone.


Non va meglio sul fronte educativo, dove le evidenze testimoniano una Calabria quasi analfabeta rispetto al resto della Nazione, sia nella lingua italiana sia nelle discipline matematiche. Non facilitano la situazione l’assenza di adeguate infrastrutture, né l’irrilevanza numerica di luoghi culturali.

Questioni registrate altrove fioriscono in specie lungo la punta dello Stivale: elevata frammentazione dei plessi, assenza di un presidio continuativo dei dirigenti scolastici, notevole turnover dei docenti, indirizzi delle secondarie non rispondenti alle vocazioni territoriali. Livelli di scolarizzazione più elevati consentono di conseguire status sociali migliori, oltreché tutelarsi dall’evenienza di cadere in stato di povertà. E con l’Istat che testimonia la relazione inversa intercorrente tra l’incidenza della povertà assoluta e il possesso di alti titoli di studio, ben si intende come questo circolo vizioso condanni la regione a muoversi verso un futuro senza futuro.


Nessuna reattività sociale

Il quadro dipinto, seppur tragico, è reale. Sociologicamente la gente calabra mostra «un basso e persistente livello di reattività sociale», segnalano le autrici e gli autori dell’articolo scientifico. Proprio la risposta meno conveniente ai cancri che attanagliano una terra che merita altro. Là dove non arrivano le istituzioni, focosa dovrebbe sorgere la piena identità della gloria che fummo.

venerdì 15 agosto 2025

Realtà virtuale e app in chiesa: dalla Calabria un’innovativa proposta di rilancio culturale

Un progetto dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria potrebbe fare da apripista verso nuove forme di turismo

Può un progetto culturale di messa in sicurezza trasformarsi in opportunità di valorizzazione turistica? La risposta è affermativa e ci arriva direttamente dal territorio calabrese. Nel centro storico di Gerace si trova la Chiesa di San Giovannello, in stile romanico e romano-orientale, oggetto di un processo di scansione nel contesto del piano Genesis (Gestione del rischio sismico per la valorizzazione turistica dei centri storici del Sud Italia), promosso da più università del Paese. La necessità di proteggere la costruzione dai terremoti non è che il trampolino di lancio per l’implementazione di sistemi innovativi di visita, compresa la fruizione da remoto.


Dalla tutela alla promozione

A illustrare l’iniziativa, con un articolo pubblicato sulla rivista scientifica Proceedings of Academic Research Community on Social and Behavioral Science, sono quattro esponenti dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria: Marinella Arena, Serena Buglisi, Daniele Colistra e Angela Quattrocchi. Il gruppo di ricerca afferente a tale Ateneo è intento a indagare il piccolo comune reggino dall’aspetto medievale, concentrandosi sulla cosiddetta “piazza delle tre chiese”, su cui insistono il complesso monumentale di San Francesco d’Assisi e la Chiesa del Sacro Cuore di Gesù, oltre alla già citata.

Scopo dichiarato non è soltanto «la verifica della sicurezza statica e della vulnerabilità degli edifici», né «l’individuazione di sistemi idonei a migliorare il loro comportamento in caso di sisma», quanto a maggior ragione «la definizione di nuove metodologie per la tutela, la salvaguardia e la conservazione, attraverso l’attivazione di tecnologie utili alla corretta gestione e protezione del patrimonio storico-culturale». Si prevedono per turiste e turisti visite guidate, approfondimenti tematici, accesso diretto alle fonti, realtà virtuale e aumentata. È in questo scenario che si scopre l’indispensabilità di un processo di scansione, senza il quale non si potrebbe associare un sistema di dati a un modello digitale: al fruitore gli elementi architettonici devono “parlare”, lasciando trasparire le informazioni utili alla loro comprensione.


Una chiesa con l’avatar digitale

Scorgerla, nel paesaggio, non è facile. La Chiesa di San Giovannello, dall’eloquente vezzeggiativo, è piccola, spoglia ma austera; obnubilata dalle magnificenze che la attorniano. La scelta delle e dei ricercatori è tuttavia ricaduta su di essa per la sua gravità artistica. Analizzata e rilevata con un Laser scanner, se ne è tratta una composizione a nuvola di punti; una restituzione integrale da intendere alla stregua di un gemello digitale, alter ego della chiesa nel mondo virtuale. Da qui è partita la fase successiva del lavoro: sperimentare al computer potenziali strategie comunicative.

Si è così ipotizzato di proiettare sulle pareti parte dell’apparato iconografico che rivestiva, in via congetturale, l’interno dell’architettura sacra. Fra le proposte, quella di posizionare un sensore di movimento attivabile al passaggio del visitatore, che subito si vedrebbe comparire di fronte l’effigie della o del santo originariamente rappresentato sul muro. Ma l’immaginazione si è spinta ancora oltre. Perché non tracciare sul pavimento una griglia luminosa al fine di esplicitare i moduli matematici utilizzati dai costruttori, come ad esempio l’affascinante rettangolo aureo?


Sul tavolo anche un’app

Al vaglio delle autrici e degli autori, anche un’applicazione scaricabile per apprezzare da cellulare una versione più smart della nuvola di punti. Il Piano strategico del turismo 2017-2022 del Ministero per i Beni e le Attività culturali annovera, in mezzo agli obiettivi, l’attrattività e competitività di turismo e cultura. C’è chi si sta impegnando per raggiungerli.

giovedì 7 agosto 2025

Spiagge calabresi, scoperte nuove specie animali: la regione in cima alle classifiche mondiali

Spiccano Catanzaro e Le Castella per varietà e ricchezza. A Pizzo identificati esemplari rari

Diciamo “spiaggia” e pensiamo alle vacanze, al sole da prendere e ai tuffi nell’acqua. Invece “spiaggia” è anche sinonimo di ricerca scientifica, e proprio in queste settimane ci giunge notizia di scoperte eclatanti compiute sulle abbondanti coste calabresi. Si parla di dati che in un baleno ci hanno fatto schizzare in testa alle classifiche planetarie. È accaduto grazie a uno studio pubblicato da Mary Antonio Donatello Todaro (dipartimento di Scienze della Vita presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, National Biodiversity Future Center di Palermo) e Christian Rebecchi (dipartimento di Scienze della Vita presso l’Università di Modena e Reggio Emilia). Il paper è comparso su Biologia Marina Mediterranea, rivista della Società Italiana di Biologia Marina.


A “caccia” di gastrotrichi

Al centro dell’indagine, microscopici (in senso stretto) animali acquatici. Sono comuni fra i sedimenti e i detriti di fondo nelle acque dolci e salate. In particolare nelle sabbie costiere e lungo il confine che separa le alte dalle basse maree. Si chiamano gastrotrichi e vanno ghiotti di alghe, batteri e altri organismi a noi invisibili. Dalla forma variabile, è curioso notare che nelle femmine mature le uova possono raggiungere le dimensioni di circa un terzo o la metà dell’intero corpo. Deformandolo quindi notevolmente. Globalmente ne sono note più o meno 525 specie, almeno 160 delle quali rinvenute pure in Italia.

Nel 1954 vi furono tre segnalazioni che ne identificarono alcune in Calabria, seguite da analisi sporadiche avvenute soprattutto attorno alla metà degli anni Novanta; finora risultavano così presenti in regione soltanto 17 specie, con poche e disomogeneamente dislocate località investigate. I due scienziati hanno perciò deciso di mettersi in gioco nel settembre 2021, con l’obiettivo dichiarato di migliorare le conoscenze faunistiche calabresi. Attenzionando il golfo di Squillace per il mar Ionio e il golfo di Sant’Eufemia per il mar Tirreno, hanno ottenuto risultati oltremodo salienti.


I primati della Calabria

Per due settimane Todaro e Rebecchi si sono spostati tra sette spiagge ioniche (Cropani Marina, Sellia Marina, Le Castella, Praialonga, Soverato, Doganieri e Belcastro) e due tirreniche (Curinga e Pizzo Calabro), prelevando manualmente un paio di litri di sabbia, per il mezzo di barattoli in plastica, dalla zona costiera fino a un massimo di 6 metri sommersi. Tale sabbia, a sentire l’esame granulometrico del sedimento, oscillava tra un livello medio e uno grossolano. Un termometro e un rifrattometro digitale hanno consentito di misurare la temperatura e la salinità del liquido, e successivamente i campioni sono stati trasferiti nel laboratorio da campo. Uno o due giorni si sono mostrati necessari per processarli: per estrarre gli animali dai granelli si è adoperata una soluzione narcotica, utile per separare i componenti sfruttando la forza di gravità. Gli esemplari sono infine stati montati su vetrino al fine di essere studiati in vivo; identificatili, i ricercatori hanno conservato diversi di loro per future indagini di genetica molecolare. E la sorpresa delle conclusioni non li ha che meravigliati.

Ben 41 specie di gastrotrichi sono state rintracciate, con una media di 11 e mezza per località (38 sullo Ionio, 15 sul Tirreno). La fotocamera digitale ad alta risoluzione, di cui era dotato il microscopio, ha documentato questa fauna con 3.000 fotografie, prossimamente rese disponibili dagli autori. Se vogliamo passare ai primati registrati, non taceremo di Contrada Doganieri a Catanzaro, la più ricca con 18 specie, seguita da Le Castella di Isola Capo Rizzuto, con 17: valori che rientrano in assoluto nei più elevati al mondo, spiegabili ponendoli in relazione con la sabbia pulita a granulometria fine, la più idonea alla vita di siffatti esseri. Per la maggior parte, nel complesso, si ha a che fare con specie già note in Italia, non tuttavia nella regione calabrese, per cui il 59% di esse specie sono da ritenersi una novità. Persino alcuni generi, categoria tassinomica superiore alla specie, erano del tutto inediti a queste latitudini.


Specie sconosciute alla scienza?

Lo stupore non finisce qui. A Pizzo si è scoperta la presenza dei rari Diplodasys minor (segnalato nell’Atlantico nord-orientale e nel mar Nero, oltreché nel Mediterraneo) e Urodasys viviparus (segnalato nell’oceano Indiano e nell’Atlantico, oltreché nel Mediterraneo), entrambi tipici degli ambienti marini e del clima subtropicale. Mentre sull’altro versante è spiccato Chaetonotus variosquamatus, anch’esso tipicamente marino ma di clima temperato, particolarmente interessante per la comunità scientifica. Di concerto, si attendono conferme su talune unità apparentemente appartenenti a specie ancora ignote; non sarà tuttavia dirimente per la straordinarietà del paper, che classifica la Calabria come una fra le regioni italiane meglio conosciute nel settore. Un aggiornamento imprescindibile di cui anche le guide turistiche dovranno far tesoro.