I prati di Kore
Martedì 30 aprile si è tenuta l'uscita finale del nostro percorso Voci e volti della città e, guidati dalla nostra prof. Preta (insieme al blogger Ivan Fiorillo) siamo tornati al Castello di Monteleone, detto impropriamente di Ruggero il Normanno, ma storicamente di Federico II di Svevia. Nella metà del XIII secolo d.C. gli Svevi arrivarono dal Nord Europa nel Sud Italia tra la Puglia, la Basilicata, parte della Campania, la Calabria e la Sicilia. Federico in cima al Borgonovo - così chiamerà Vibona - trova la torre "speronata" normanna che si protende verso il Còfino, dove sono i resti del santuario di Demetra e Kore.
Fino al V sec. d.C. la città tardo-antica di Vibona era ancora abitata, seppur non come in passato: i monumenti classici diventavano pian piano dei ruderi; se ne erigevano di nuovi, ma meno splendidi. Le basiliche paleocristiane erano munite di battisteri, come quello situato in piazza San Leoluca, nel quale si bagnavano i catecumeni per diventare cristiani: le conversioni erano tante, il cristianesimo faceva proseliti anche presso gli adulti già pagani.
Il cronista Goffredo Malaterra è lo storico che ci parla di Ruggero il Normanno. Egli, quando arrivò in questo luogo, devastato da incursioni turchesche, trovò gli avanzi di Hipponion-Valentia, ma intuì l'importanza strategica del suo territorio. Il Gran Conte di Sicilia e Calabria sottrasse a Vibona la cattedra episcopale e la portò a Mileto, una delle sue capitali, poi distrutta dal terremoto nel 1783. Ruggero edificò qui solo una torre militare e privò Monteleone del soglio episcopale: ciò non fu cosa gradita!
Il castello è volgarmente intitolato a lui, ma i Monteleonesi non lo amavano, e nelle leggende popolari è destinato, per un incantesimo che si perpetua all'infinito, a rimanere incatenato in uno dei cunicoli del maniero. Ruggero sul dorso del suo cavallo nero, dalle segrete del "suo" castello pensa di raggiungere la salvezza perché stanno arrivando i Saraceni, e vuole arrivare alla spelonca di Bivona per prendere la via del mare: dunque vi sarebbero, secondo la fantasia popolare, delle gallerie che collegano il castello allo sbocco sul Tirreno. Ma ciò non avviene e l'incantesimo dura per sempre: il cavallo lo riporta indietro, fino al castello, dove l'anima sua sarà per sempre incatenata e da qui non uscirà mai: perciò il suo nome è sinistramente legato al castello.
Esiste una leggenda ricca di pietà, senso di libertà e ribellione al potere, di dolore e morte, che richiama alla passione infinita per Monteleone. A tramandarla, di bocca in bocca, fu il popolo, portatore di contro-verità rispetto alla storiografia ufficiale, scritta da storici cortigiani dei duchi Pignatelli, che questa storia non volevano sentire. Ma vox populi, vox Dei! Tale voce ha cavalcato l'onda dei secoli e a noi è arrivata, per bocca della nostra docente!
I Pignatelli erano i nuovi feudatari di Monteleone, ma i capi di una congiura, detti i Sette Martiri si opposero e furono trucidati dai vili scherani del duca, che volle infeudare a tradimento Monteleone. Nel popolo, a guardare le sette teste che pendevano dai merli del castello svevo, c'era una bambina, Diana Recco, che aspettò dieci anni per vendicarsi perché lei era la figlia e la sorella di due dei sette eroi! Sarà damigella alla corte ducale, bellissima ragazza che si mantiene pura perché solo così la sua vendetta avrà senso. Al matrimonio della figlia del Barone Lo Tufo, che aveva infeudato per conto dei Pignatelli la civitas, estrae dal corsetto un pugnale e uccide colui che aveva ordinato la decapitazione dei suoi cari. Non importa se sarà messa sotto i vincoli, non importa se sarà decapitata: avrà espresso l'immenso amore per la sua città, la cui leggenda è legata indissolubilmente al castello che eternizza la nostra eroina Diana Recco! Questa è la leggenda che la prof. ci ha narrato, lasciandoci col fiato sospeso.
Torniamo indietro nel tempo, all'epoca delle incursioni saracene. I Turchi venivano nel territorio per devastarlo, per violentare le donne, rapirle e portarle via per farne delle odalische o delle prigioniere, per trucidare gli uomini, per sgozzare i bambini e impadronirsi di ogni bene, non per creare qualcosa di stabile, ma per la furia devastatrice che contraddistingueva questi popoli barbari che dal mare li portava alla terraferma. Molti secoli prima dal mare erano giunti i Greci, che si insediarono sulle nostre coste, perché nell'entroterra c'erano gli Osci, e non solo insediarono alcuni scali e porti, ma crearono le colonie e le pòleis.
Il nostro territorio venne colonizzato dai Locresi, che dallo Ionio arrivarono al Tirreno per fondare la città di Kore: proprio per questo I prati di Kore è una metafora per alludere a Hipponion, le cui distese fiorite erano un paradiso, in cui la Fanciulla Hipponiate (Kore) raccoglie fiori per farne una corona insieme alle sue amiche, tra cui la ninfa Scrimbia. Kore, figlia di Demetra, è rapita da Ade, signore dell'oltretomba, che la porta negli inferi; le fa mangiare i semi di melograno: chi mangia i frutti dell'oltretomba sarà costretto a vivere lì per sempre.
Si tramanda che il ratto sia avvenuto ad Enna, città siceliota, ma un'altra variante nella mitografia sacra è che Kore si trovi sui prati di Hipponion.
In questa mostra allestita di recente abbiamo ammirato le effigi femminili, testimonianze di come le donne si vestivano e si acconciavano. Abbiamo scorto i loro sorrisi, gli ex voto che donavano a Demetra e a sua figlia Kore a cui era dedicato un santuario grandissimo, che però non abbiamo potuto visitare, perché il parco archeologico attualmente non è visitabile (che gran peccato!).
Tra le dee che abbiamo ammirato, c'è Artemide, l'eterna ragazza dell'Olimpo, colei che si è svestita dei panni della donna classica e si è autodeterminata: dimostrazione di questo è il taglio del chitone, che diventa una gonna corta, da donna libera e proto-femminista.
Poi abbiamo notato un vaso antropomorfo che si chiama askòs, che è femminilizzato e, per concludere, abbiamo osservato un'esposizione virtuale della Laminetta orfica.
Così si è conclusa la nostra passeggiata culturale alla scoperta delle voci e dei volti di Vibo, un'esperienza formativa che ci arricchisce di conoscenze e ci lascia la possibilità, attraverso la memoria, di sentirci parte viva del nostro territorio.
Reportage bellissimo dei miei alunni
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