giovedì 25 settembre 2025

Reportage di Aurora Lo Mastro

I prati di Kore

A dicembre ci siamo recati al museo archeologico statale Vito Capialbi per una visita guidata dalla professoressa Preta, durante la quale abbiamo visitato le sale destinate all’esposizione dei vari manufatti di epoca greca e latina e abbiamo ammirato il monetiere del conte Capialbi.
L’ultimo giorno di aprile è avvenuta la quarta e ultima uscita di Voci e volti della città all’interno delle salette della mostra “I prati di Kore”. Questa volta, in nostra compagnia, vi era anche il blogger Ivan Fiorillo, che spesso collabora con la nostra insegnante in vari progetti.
Seduti sul verde prato, sotto il sole primaverile, io e la classe abbiamo ascoltato attentamente la storia delle origini di Vibo, narrata dalla professoressa. Il castello è impropriamente detto di Ruggero il Normanno, ma più storicamente di Federico II di Svevia.
Il cronista Goffredo Malaterra racconta che Ruggero arrivò in questi territori, devastati dalle incursioni saracene, e trovò i ruderi della vecchia Hipponion. La cosa buona fu che eresse una grande torre, che è un cuneo, quasi la prua o prora di una metaforica nave che si slancia verso la collina detta “il Cofino”, dove vi erano i resti di un santuario dedicato a Demetra e alla figlia Kore. Successivamente privò della cattedra episcopale Vibona (detta poi Borgonovo e poi Monteleone da Federico di Svevia) e la portò a Mileto, voluta come sua capitale. Mileto odierna non è la vecchia città, rasa al suolo dal terremoto del 1783, che però non distrusse la torre normanna di Vibo. I suoi abitanti non amavano la figura di Ruggero: secondo il popolo e la sua inesausta fantasia, egli è destinato per una malia a rimanere sepolto in uno dei cunicoli del castello. I Monteleonesi maledissero Ruggero - per averli defraudati della cattedra episcopale - con un incantesimo che si perpetua nei secoli. Egli sul dorso del suo cavallo nero, nei cunicoli sotterranei, cerca di salvarsi dai saraceni e pensa di poterlo fare raggiungendo la Spelonca di Bivona, ma non è così perché è incatenato all’incantesimo dunque al castello: il cavallo si imbizzarrisce e lo riporta nel castello, dove è incatenato per sempre il suo fantasma.
Un’importante figura è un’eroina che fa parte delle leggende, e non è Kore, che appartiene al mondo dei miti greci. Questa leggenda del 1500 è intrisa di amore verso la propria terra, e venne narrata dal popolo oralmente. La professoressa Preta ha composto una favola in versi in dialetto, una ballata popolare per Diana Recco, l’eroina di cui parliamo. I merli del castello erano fortificazioni sulla sommità dove si ponevano le sentinelle per fare le veglie, per proteggere dagli invasori, che furono i Pignatelli, ai quali si opposero i Sette Martiri di Monteleone, che nel castello vennero decapitati e a guardare le teste che penzolavano dai merli c’era Diana Recco, figlia e sorella di due dei sette martiri, e per questo si vendicò. Dieci anni dopo divenne damigella alla corte ducale dei Pignatelli, tutti si innamoravano di lei ma si mantenne vergine. Durante il matrimonio della figlia del barone Lo Tufo - o Del Tufo - uccise quest’ultimo, poiché aveva ordinato la decapitazione del padre e del fratello. Dunque la favola versificata narra la vendetta di Diana.
Una volta entrati nel museo, abbiamo ammirato la mostra in cui protagoniste sono le antiche donne vibonesi: Diana Recco e Kore, poiché Monteleone prima Hipponion fu la loro città. I prati di Kore è una metafora per alludere alla città di Hipponion, dove i prati sono un paradiso, dove la Fanciulla, nel mito, raccoglieva i fiori con le amiche, magari per farne una corona da dedicare a una divinità o semplicemente per divertirsi, mettendo i fiori nei capelli. Ma proprio su questi prati la ragazza venne rapita e portata dallo zio Ade nell’oltretomba, dove divenne sua sposa. C’erano due varianti del mito: la più accreditata racconta che la giovane fosse stata rapita ad Enna, città siceliota fondata dai Greci; un’altra variante nella mitografia sacra è che Kore si trovasse con le sue amiche sui prati di Hipponion, vantati da tutti coloro che hanno scritto della città. Possiamo parlare di: Duride di Samo, etnografo ellenistico; Timeo di Tauromenio, storico di Taormina; Strabone di Amasea; ancora nella tragedia intitolata Alessandra, di Licofrone di Calcide, si parla di Hipponion. Secondo una variante del mito di Eracle, egli sarebbe passato da Tropea e Vibo; oppure secondo altri miti Oreste sarebbe venuto nel tempio di Proserpina al mare di Hipponion, perseguitato dalle Erinni vendicatrici dopo aver ucciso sua madre. Possiamo dunque affermare che la nostra città è sempre stata presente nei miti.
All’interno della sala abbiamo visto diverse effigi femminili, perché, come dice la professoressa, attraverso la donna passa la storia reale. Abbiamo potuto ammirare come le donne si vestivano, come si acconciavano, i loro sorrisi o i loro desideri; ancora un busto in basalto nero della principessa d’epoca Giulio-Claudia Messalina oppure gli ex voto che le donne donavano alla dea Demetra e alla figlia Kore al santuario loro dedicato.
Ivan Fiorillo, brillante divulgatore locale, è intervenuto chiedendo alla professoressa cosa ne pensasse dell’allestimento della mostra, e lei ha risposto che, nonostante lo spazio ristretto, gli addetti ai lavori hanno sfruttato nella maniera più idonea le due salette del laboratorio del vasaio; ha spiegato che fare una mostra vuol dire selezionare i particolari più importanti, senza accumulare inutilmente. La mostra non presenta un accumulo di materiale che potrebbe distrarre il visitatore, bensì c’è una scelta ben precisa che ci guida in uno spazio ristretto ad osservare la tipologia delle antiche donne vibonesi.
Dopo la lunga introduzione della professoressa, grazie alla quale ci siamo molto acculturati, siamo passati all’osservazione della mostra, spiegata dai panelli. Prima abbiamo visto Artemide, la dea della caccia ed eterna ragazza dell’Olimpo, così la chiama la professoressa, poiché si è svestita dei panni classici da donna e ha scelto come vivere, da sola, prima di tutto accorciando il chitone. Io sono mia, così diceva Artemide, che non aveva bisogno di mariti, ma che bastava a sé stessa. Tanti volti ha Artemide: determinata, scalmanata nelle corse nei boschi, paurosa quando sconfigge i nemici, ma anche pietosa quando si intenerisce davanti al Ifigenia e le salva la vita. Successivamente abbiamo visto un vaso antropomorfo, ovvero umanizzato, detto askos, e la statua di un volto femminile con il famoso sorriso ionico, un sorriso accennato che non mostra i denti, inventato dagli scultori della Ionia. Dal mito siamo passati alla storia, ammirando la raffigurazione di una principessa che ebbe grande potere alla corte dei Giulio-Claudii, la corte romana dopo Augusto, che inizia da Tiberio, figlio di Livia. Tiberio, infatti, faceva parte della dinastia Giulia per adozione perché era stato adottato da Augusto nel 4 d.C., e della gens Claudia per nascita. Sotto questa dinastia vivevano delle principesse molto belle e con una acconciatura elaborata, che abbiamo potuto vedere su una delle statue. Secondo un’interpretazione, lei era Valeria Messalina, moglie dell’imperatore Claudio. Si pensa che ella avesse dei possedimenti in una villa marittima di Vibo, poiché la statua è stata trovata vicino al mare; oppure che la famiglia che possedeva la villa fosse imparentata con lei, e dunque esponeva il suo ritratto. Per finire, siamo entrati nella saletta accanto per osservare un’esposizione virtuale della laminetta orfica, la quale abbiamo avuto il piacere di vedere nel mese di dicembre.
Si è concluso così il percorso disciplinare Voci e volti della città. Il modo alternativo di fare lezione che ci ha proposto l’insegnante è stato apprezzato, poiché interessante e coinvolgente. Non possiamo renderci conto delle bellezze della nostra città, della particolarità degli antichi manufatti greci e latini, delle storie dei grandi personaggi della nostra antichità fin quando non le viviamo a pieno, e possiamo dire di averlo fatto grazie alle varie uscite didattiche, accompagnate naturalmente dalla conoscenza della professoressa, che con molto piacere ci ha trasmesso. Spero dunque che i prossimi anni potremo avere il piacere di conoscere ancora una volta ciò che ci è sconosciuto, che eppure è così vicino a noi.

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