giovedì 18 settembre 2025

Reportage di Gloria Grasso

I prati di Kore

Durante l'uscita didattica, prevista dal percorso didattico Voci e volti della città, avvenuta il 30 aprile, noi studenti della I A del Liceo Classico "M. Morelli", accompagnati dalla prof. M. Concetta Preta, abbiamo visitato la mostra "I prati di Kore" al Museo Archeologico Nazionale "Vito Capialbi".
Prima di recarci all'interno delle sale museali, abbiamo sostato sui prati antistanti il castello e conosciuto meglio la sua storia. Il prestigioso maniero è il simbolo di Vibo Valentia ed è considerato impropriamente il castello di Ruggero il Normanno, ma storicamente è di Federico II di Svevia. Lo storico Malaterra dice che Ruggero d'Altavilla si invaghì dei ruderi di Hipponion, detta Vibona, e li depredò per costruire la sua reggia a Mileto, mentre qui eresse una torre militare che si protende verso una collina dove si trovano i resti di un grandissimo santuario dedicato alla dea Madre e alla Figlia: Demetra e Kore. Successivamente Ruggero commise un errore: privò Vibona della cattedra episcopale e la portò a Mileto. Secondo alcune leggende il conte, a causa di alcuni incantesimi, fu costretto a rimanere sepolto in uno dei cunicoli del castello. Successivamente, sempre dalla voce narrante della prof., abbiamo ascoltato la sua ballata popolare dal titolo: "La ballata di Diana Recco".
Sette eroi di Monteleone avevano osato schierarsi contro i Pignatelli; perciò, venivano mozzate le loro teste. Tra il popolo, a guardare le teste che penzolavano dai merli del castello, c'era Diana Recco ancora bambina. Aspetterà dieci anni per vendicarsi, quando sarà damigella alla Corte Ducale dei Pignatelli e durante il matrimonio a Lavello di Lucania di Maddalena, figlia del barone Giovanni Del Tufo, che aveva infeudato per conto di Pignatelli Monteleone, lo pugnala. Diana esprime l'immensa voglia di libertà e di amore per la città. Tra storia e leggenda, rappresenta l'eroina che ha dato la vita per fare vendetta, o giustizia.
Entrati all'interno del castello, abbiamo visitato "I prati di Kore", costituita di opere conservate solitamente nei depositi del museo di Vibo, oppure frutto di scoperte recenti: un approfondimento sull'universo femminile antico in chiave contemporanea. La società greca fu patriarcale e maschilista. Ai soli uomini della città (polis) era riservata la partecipazione alla vita politica, mentre alle donne, custodi della casa (oikos), era affidato il ruolo di generare i cittadini del futuro. A questa "subordinazione" della donna all'uomo nella vita reale, tuttavia, corrisponde l'importanza della donna nel mito, ovvero in quel sistema narrativo creato dai Greci volto a spiegare l'origine e il significato di fenomeni naturali. Tanti poi sono i personaggi femminili indimenticabili della letteratura greca, specie delle tragedie e commedie, che hanno dato volto alle mille sfaccettature del pensiero e dell'agire umano. Fu Antigone, ad esempio, che vive ancora oggi sui palcoscenici del mondo, a esprimere il primato della legge morale su quella dello Stato. Numerose poi le divinità femminili, come Persefone e Artemide. Se non ci fossero le eroine e le dee non sapremmo cosa siano l'amore, il dolore, la purezza, il sacrificio, la colpa e tanti altri sentimenti umani.
La mostra "I prati di Kore, storie di antiche donne vibonesi", ospitata nella torre (XIV secolo) del castello medievale di Vibo Valentia, sede del Museo Archeologico Nazionale, racconta le storie di figure femminili legate al passato dell'antica Hipponion, città della Magna Grecia fondata dai Locresi agli inizi del VI secolo a.C., poi divenuta Vibo Valentia in età romana.
Per i Greci fu grazie a Persefone, la dea fanciulla (in greco Kore), che nacquero la primavera, l'alternanza delle stagioni, i cicli della natura e con essi il concetto di eternità della vita umana, che scorre di generazione in generazione e che non si interrompe neanche dopo la morte. Secondo il mito, la fanciulla, giocosa in un prato fiorito in compagnia delle Ninfe, protese le mani per cogliere un meraviglioso narciso, quando nel suolo si aprì una voragine da cui emerse il dio degli inferi, Ade, sul suo cосchio trainato da terrificanti cavalli neri alati. Kore fu trascinata nell'oltretomba, e dopo essersi cibata della melagrana offertagli dal dio, fu destinata a divenire per sempre la regina degli Inferi. Ma la madre Demetra, dea dell'agricoltura e della fertilità della terra, reagì disperata alla perdita della figlia, vagando sconsolata alla sua ricerca condannando l'umanità ad un lungo e arido inverno, fino a che Zeus, il padre di tutti gli dei, fu costretto a consentire il ritorno di Persefone sulla terra per sei mesi all'anno.
I Greci identificarono proprio le campagne di Hipponion come uno dei luoghi del mitico rapimento di Kore, poiché qui, più che in altri luoghi del mondo greco occidentale, era particolarmente radicato il culto della dea. Le donne della città la veneravano indossando, durante le feste in suo onore, corone di fiori analoghe a quelle intrecciate dalla dea al momento del suo rapimento. Kore-Persefone non era sola al momento del rapimento da parte di Ade. Con lei vi erano le sue giovani compagne di giochi, le Ninfe, le bellissime fanciulle figlie del fiume Acheloo, che per non essersi opposte al rapimento furono trasformate da Demetra in Sirene, creature mostruose dalla testa di donna e il corpo di uccello, inviate dalla dea in ogni angolo del mondo alla ricerca spasmodica della figlia. Le Sirene divennero, soprattutto in Magna Grecia, grazie alle dottrine del filosofo Pitagora, figure divine dalla somma sapienza, consolatrici con il loro canto e accompagnatrici nell'aldilà delle anime pure destinate alla salvezza.
Insieme a Persefone, a raccogliere fiori nel prato squarciato dalla biga di Ade vi era anche Artemide dea della caccia, della natura selvaggia, signora degli animali, protettrice della castità, della fertilità, del parto, delle giovani donne. In Magna Grecia, le due figure divine spesso si sovrappongono, tanto che lo storico Diodoro Siculo (I secolo a.C.) ricorda Persefone e Artemide come compagne di giochi, destinatarie della medesima educazione ed entrambe votate alla castità.
La Persefone hipponiate, non a caso, riassume in sé molte delle prerogative proprie di Artemide. Lungi dall'essere solo "sovrana degli Inferi", ella divenne qui divinità "poliade", guerriera e protettrice della polis, giunta al seguito dei coloni Locresi, fondatori di Hipponion, per rendere sacro il possesso greco delle terre indigene degli Osci. A lei i giovani dell'aristocrazia di Hipponion dedicavano le loro sontuose armi in bronzo, utilizzate durante le cerimonie di passaggio all'età adulta, mentre le fanciulle la onoravano offrendole oggetti da cosmesi e ornamenti personali, invocandone la protezione nei rituali di abbandono dell'infanzia e di propiziazione al matrimonio.
Abbiamo osservato la statuetta di un misterioso volto di una donna: una fanciulla dai grandi occhi neri che irrompe nel I secolo d.C., nella storia di Hipponion, ormai divenuta Vibo Valentia con i Romani. Molti sono gli interrogativi ancora irrisolti su di un'opera fino ad oggi sottovalutata rispetto alla sua vera importanza, che attrae per la finezza dell'esecuzione e su cui aleggia un velo di mistero in virtù di una bellezza straordinaria rimasta priva di identità. Il ritratto proviene da una ricca villa suburbana del litorale vibonese, ubicata in località S. Venere, nei pressi dell'attuale porto, sicuramente appartenuta ad un personaggio di rango sociale elevato. È scolpito nella basanite questo busto di donna, in origine posato su un pilastrino per formare un'erma, e raffigura una giovane con capigliatura lussureggiante, raccolta in un'artificiosa acconciatura che rielabora, secondo la moda femminile del regno di Claudio (41-54 d.C.), una pettinatura messa in voga da Agrippina Maggiore. L'opera è testimone di un tempo in cui la città di Vibo Valentia era una delle più ricche dell'Italia romana. Una città dai molteplici legami diretti con il potere imperiale, che ebbe Giulio Cesare come suo protettore (patronus), che accolse più volte l'oratore Cicerone, che ospitò nelle sue acque la flotta di Ottaviano, il futuro imperatore Augusto.
Pandina Eiponieon: Pandina degli Ipponiati, cosi viene definita la divinità raffigurata sulle monete in bronzo che la polis di Hipponion, governata da un'élite guerriera del popolo italico dei Bretti, emette tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C. La dea è vestita con una lunga tunica panneggiata, al di sopra della quale indossa una corta veste aderente con scollo a V, fermata in vita da una cintura che mette in risalto le forme. Sui capelli raccolti dietro la nuca è presente un diadema, simbolo di regalità. Gli attributi propri ne accrescono l'aura di mistero, rendendola difficile da definire e inquadrare rispetto a quanto noi sappiamo del pantheon greco. Forse una dea della fertilità agraria assimilabile a Demetra (e alla latina Panda)? forse la terrificante Ecate? forse la stessa Kore-Persefone nella sua veste di accompagnatrice delle anime dei morti (Psicopompa)? Pandina è una divinità ancestrale che aspetta ancora di rivelarsi a noi, come bene ci ha detto la nostra docente, che su di lei ha scritto il romanzo: Il sigillo della dea Pàndina.

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