Il Valentianum ospita da quasi 40 anni la raccolta delle opere appartenenti al duomo della città

In città lo si conosce popolarmente come Museo d’Arte Sacra, ma la targa affissa sulla porta parla chiaro: “Museo dell’Arte Sacra”. Sito a Vibo Valentia nel Valentianum, fu fondato il 22 dicembre 1988 per volontà dell’arciprete monsignor Onofrio Brindisi. Il quattrocentesco convento domenicano diveniva in tal modo scrigno di opere provenienti da tutto il territorio, databili all’Età moderna. Un permesso speciale dell’attuale parroco, don Pasquale Rosano, ci ha consentito di visitarlo in un momento di chiusura e in perfetta solitudine: lo ringraziamo notevolmente.
Da museo a complesso museale
Già nella sua prima configurazione esso si presentava quale “Museo del Duomo”, come attesta la lapide visibile a fianco dell’ingresso; non a caso il Duomo di Santa Maria Maggiore e San Leoluca era stato edificato e poi ristrutturato con il dichiarato intento di farne una chiesa-museo. Un’esistenza travagliata, mai fu realmente considerato dalle e dai vibonesi. Il 13 ottobre 2017 si riprovò con una ulteriore inaugurazione, a opera del recentemente compianto don Antonio Purita, ma durò poco.
L’ultimo tentativo, si spera, potrebbe essere quello fortunato: il 4 gennaio scorso si è dato vita a una novità per la struttura, inserita nell’inedito Complesso Museale del Duomo. I beni accolti nel luogo di culto fanno così sistema con quelli esposti nell’edificio adiacente, un incentivo altresì turistico per chi verrà a visitare d’ora innanzi il capoluogo della provincia affacciata sulla Costa degli Dèi.
Il percorso allestitivo
Ad accogliere una volta superata la soglia, subito due leoni in pietra del Quattrocento: reggevano il portale del Duomo, ma dopo il terremoto del 1638 furono trasferiti dentro per tenere il sarcofago del patrizio Decio de Suriano.
Questo, scolpito a bassorilievo nel Rinascimento, è un pezzo artisticamente pregiato; recuperato nel corso dei restauri secondonovecenteschi, era incassato nel muro della sacrestia e fungeva da serbatoio d’acqua per le abluzioni.
La colorata lapide marmorea del Settecento, a seguire, narra invece la ricostruzione di una cappella a Mileto.
Altri marmi contemporanei, epigrafi, riportavano un codice di portolaneria per le nostre marine, utile per pescatori e mercanti.
Spazio alla pittura con la “Santa Caterina da Siena” (forse) di Wenzel Cobergher, «la più bella pittura di Monteleone» secondo un valido studioso locale.
Rimarchevole la “varetta”, in bronzo e argento, del busto argenteo di San Leoluca, scolpito a Napoli e trafugato nel 1975. Resta l’altrettanto argentea mitria, memore del colera cittadino ottocentesco, in sua testimonianza.
Tra le curiosità, il canonico Vincenzo Morelli in olio su tela, fratello del più famoso Michele: quegli visse in concetto di santità proprio nel tempio, venerato già in vita.
A impreziosire il tesoro, due statue in marmo che nell’esposizione sembrerebbero fronteggiarsi. A sinistra la “Madonna con il Bambino” e a destra “San Luca”, ambedue commissionate da Ettore Pignatelli ad Antonello Gagini; nei progetti originari, tuttavia, in luogo della prima figurava un San Giuseppe e del secondo un San Michele.
Una ruberia da rispolverare
Capitolo a parte meritano i quattro angeli oranti, in bronzo dorato, opera di Cosimo Fanzago. Nonostante siano stati vittime di un terribile furto, occorso la notte del 3 maggio 1972 (come dimostrato dalle carte del tempo, e non il 5 maggio 1973, data erronea che praticamente ovunque si legge), alcun accenno si rinviene nelle didascalie dell’allestimento; sarebbe interessante segnalarlo.
Nel mentre, chiunque è invitato a contattare il parroco per farsi aprire le porte del museo. Dall’autunno, poi, nuovi giorni e orari definitivi saranno annunciati alla cittadinanza.
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