giovedì 27 marzo 2025

Vibo Valentia. Il culto dei morti e la laminetta aurea dell’antica città di Hipponion

Fiore all’occhiello del Museo archeologico di Vibo intitolato a Vito Capialbi


21 giugno 1972. Una notizia senza precedenti per la cultura locale iniziava a circolare negli ambienti più colti della cittadina, diffusa solo a seguito di attenti studi e verifiche. Da allora nulla di paragonabile è venuto a registrarsi. L’inaugurazione del Museo statale della Magna Grecia al Palazzo Gagliardi di Vibo Valentia nel luglio 1969, oggi noto come uno dei numerosi musei archeologici nazionali italiani, abbisognava a ben vedere di un evento epocale che lo ponesse sotto le luci della ribalta.

E ciò accadde puntualmente in quel periodo con un recupero di rilevanza internazionale. Il destino, magari, ci mise lo zampino, ma nulla avvenne per caso: fu grazie al riavvio degli scavi nel boom edilizio del dopoguerra se un manipolo di archeologi poté imbattersi in un pezzo così prezioso. Tante e distribuite erano le tombe di Hipponion identificate, e in una di queste, in mezzo alle ossa incenerite di una adolescente, brillò di luce propria una minuscola laminetta interamente aurea e niente affatto rovinata, piegata su se stessa in quattro parti. Nel buio della sepoltura l’oro rifulgeva sprigionandosi anche da un anello di pregio indossato (senza raffigurazioni di dèi, secondo i suoi dettami dottrinali), accompagnato almeno da una lanterna retta in mano.


Sottilissimo foglio color giallo intenso, oggi custodito nel Museo di Vibo Valentia

La necropoli di Hipponion, con centinaia di inumazioni, era situata nella valle sottostante l’altura e la ragazza riposava quasi di fronte all’odierna sede dell’Istituto nazionale previdenza sociale. Dirigeva i lavori Ermanno Arslan, incaricato dalla Soprintendenza alle antichità per la Calabria di indagare previamente la zona dove sarebbe sorto tale edificio istituzionale. A marzo la tomba numero 19, già insolita per presentare i resti scheletrici della persona deceduta conservati, restituì a sorpresa sullo sterno del corpo il sottilissimo foglio color giallo intenso. In tre anni si comprese che le sedici righe, scritte in un greco regionale tipico delle colonie locresi, erano di stampo iniziatico, con istruzioni indisponibili agli sguardi profani del popolo indegno dei “misteri” (sétte alternative alla religione ufficiale).


Matrice orfico-pitagorica

I versi furono incisi e tinti di rosso, e si pensava risalissero al III secolo a. C., mentre adesso la datazione è arretrata di un duecento anni. Alla maniera di altre lamine ritrovate, le credenze di riferimento avevano una matrice orfico-pitagorica, eppure non mancano sincretisticamente riferimenti al locrese culto dionisiaco.

La giovane, vergine, doveva essere una consacrata ai limiti dell’autocoscienza, figlia di un sacerdote che mai, toccato dalla più innaturale delle perdite familiari, avrebbe permesso la dolorosa trasmigrazione della piccola anima in una nuova esistenza umana: il vademecum l’avrebbe salvata in eterno, lei ingenua erede di saperi segreti (anche se, curiosamente, la traduzione riportata nel 1972 includeva un errore geografico che sarebbe stato fatale per la salute della defunta, confondendo la destra con la sinistra). Una mezza dozzina di simili manufatti magnogreci, frutto però non di missioni scientifiche, era conosciuta al momento del rinvenimento, tuttavia la suddetta vince in termini di antichità ed estensione perfino rispetto alle attuali circa quaranta dell’area mediterranea. E non è monca nel testo.


Per la prima volta si poteva capire il funzionamento dei riti funerari orfici

Per la prima volta al mondo si poteva capire il funzionamento dei riti funerari orfici, con un letto funebre composto dalla terra nuda e un poco copioso corredo. Forse un perduto sudario di lino avvolgeva la fanciulla. La comunità accademica, a ogni modo, annovera di diritto l’opera fra le testimonianze epigrafiche di maggior rilievo in ambito greco. Il Castello Svevo di Vibo Valentia, già Hipponion, ne è il custode.

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