domenica 30 marzo 2025

L’agonia della ‘ndrangheta è iniziata, i suoi “figli traditori” preferiscono la cultura

Arcangelo Badolati svela in un libro il fenomeno dei figli che rinnegano le famiglie ‘ndranghetiste


«La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni». Così si esprimeva Giovanni Falcone in un’intervista a Rai 3 trasmessa il 30 agosto 1991, qualche mese prima della strage. Un magistrato lungimirante, la cui profezia sta attuandosi con sorpresa anche grazie ai rampolli fuoriusciti, capitale umano che si sottrae ai vincoli familiari in nome della giustizia.


Arcangelo Badolati e il suo saggio d’inchiesta

Ne parla uno scrittore di prestigio, autore di opere che seguono il filone della letteratura d’inchiesta. Si tratta di Arcangelo Badolati, tra i massimi esperti di criminalità organizzata, firma di volumi che indagano il contesto socio-culturale della Calabria. Giornalista professionista e caposervizio per la Gazzetta del Sud, è componente del “Centro di Ricerca e Documentazione sul fenomeno mafioso e criminale” dell’Università della Calabria. Coordina il comitato scientifico dell’Osservatorio nazionale sulle mafie “Falcone-Borsellino” e ha steso testi per televisione e teatro.

Il suo “Figli traditori: i rampolli dei boss in fuga dalla ‘ndrangheta”, edito nel 2024 da Luigi Pellegrini Editore, rivela un animo appassionato per la ricerca e dedito alla trasmissione della memoria storica. Dal saggio traspaiono, anzitutto, una potenza evocativa straordinaria e una padronanza linguistica non improvvisata; quel quid in più che separa la cronaca dalla narrazione. L’obiettivo del libro mette a fuoco, come mai prima d’ora, un dirompente cambiamento in atto, che adagio adagio sta abbattendo il nucleo fondativo della mafia calabrese dalle sue fondamenta. È la famiglia, medievalistico centro di potere che ricalca gli schemi delle vecchie monarchie europee. Figlie e figli che “tradiscono” nonne e nonni, madri e padri, mostruosamente convertendosi in collaboratori dello Stato. Eredi disposti a rinnegare l’onore del lignaggio consegnandosi al “nemico”, per confessare delitti e palesare gli affari più segreti. Se cade il delfino, crolla la stirpe e la ‘ndrangheta muore, degradandosi a pretta mafia.



L’universo femminile della ‘ndrangheta

La ‘ndrangheta è donna, poco femminile ma donna a tutti gli effetti: alle madri il compito efferato di impartire un’educazione subculturale alle proprie creature, plagiate sin da infanti con subvalori contrari al vivere civile. Madri terribili mai pronte a sopportare l’inumano travaglio psicologico di assistere alla disfatta familiare, per giunta causata dal frutto dell’amore genitoriale.

Che possa definirsi amore è in dubbio… Figliare serve loro per pratiche ragioni matrimoniali, al fine di rafforzare legami di sangue e meglio controllare il territorio; a volte ci scappano pure figlicidi sacrificali, se necessari per l’onore. La morte è d’altronde il male connaturato a siffatte organizzazioni. Non un anti-Stato, nel caso della mafia calabrese, sibbene uno Stato parallelo che si muove accanto e non contro l’istituzione.


Dalla cultura nasce il riscatto-tradimento

“Saturno devorando a su hijo” di Francisco Goya, che campeggia in copertina, è la plastica rappresentazione di un orrore tutt’altro che mitologico. Nella nostra terra vi sono mamme che insegnano ad ammazzare e che mitizzano i parenti incarcerati esaltandone il coraggio. Loro così forti, motore del male, sconfitte in un istante da una ribellione che è sì giovanile, ma destinata a durare per l’intera vita. Il riscatto di fanciulle e fanciulli che, emozionatisi con una poesia letta a scuola o con un romanzo sfogliato per caso, hanno trovato nella cultura la svolta di un futuro più giusto.

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