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domenica 11 ottobre 2020

“Superdiffusori” del coronavirus? Facciamo chiarezza






Torniamo a parlare di coronavirus: la tenacia dimostrata da molte testate ci costringe ancora una volta a evidenziare le loro mancanze.

Una ricerca, pubblicata su Science il 30 settembre, ha fatto molto parlare di sé, talvolta a sproposito. Il focus era preciso: “L’epidemiologia e le dinamiche di trasmissione della Covid-19 in due Stati indiani”, ossia uno studio finalizzato alla ricostruzione dell’epidemiologia, da marzo ad agosto, in un contesto privo di grandi risorse - non è il primo articolo ad affrontare la questione, ma uno dei pochissimi - , con l’obiettivo di migliorare le misure di controllo in questi luoghi sfortunati del pianeta. I due Stati, grazie ai dati raccolti, hanno consentito di ripercorrere la trasmissione del virus e di valutare la mortalità della malattia: sono tra gli Stati indiani che vantano una sanità migliore rispetto ad altri. Le misure precoci in merito alla sorveglianza della patologia hanno incluso test di riconoscimento per il Sars-Cov-2, dei quali viene sottolineata l’imprecisione, rivolti a chiunque fosse andato alla ricerca, presso strutture sanitarie, di cure per una grave malattia respiratoria acuta o per una malattia simil-influenzale, ma anche un tracciamento dei contatti avuti dalle persone con Covid-19 confermata o sospetta, con successivi test a ciascun contatto, indipendentemente dalla presenza di sintomi, per identificare una possibile trasmissione partita da un caso primario. Particolari, questi, da non dimenticare nella comprensione del lavoro, unitamente al fatto che i dati raccolti non sono stati sottoposti ad alcun comitato revisore, poiché gestiti a livello governativo. Sulla base di tali dati, monchi di alcuni casi non segnalati e dunque di una visione completa delle infezioni secondarie, sono state presentate delle ipotesi capaci di spiegare le osservazioni eseguite. In numeri: i dati di tracciamento dei contatti analizzati includevano solo il 20% di tutti i casi segnalati come casi indice e rappresentavano solo il 19% di tutti i contatti tracciati. I casi rintracciati, si legge, potrebbero non essere rappresentativi dell’intera popolazione, poiché oltretutto l’impegno nella ricerca dei casi è variato in termini temporali e spaziali. Tra i risultati si è supposto, in mancanza di elementi probatori - nessuna informazione sulle tempistiche dei sintomi in relazione ai test - , che i contatti risultati positivi ai test siano stati infettati dai casi indice cui erano stati riferiti, giungendo così alla descrizione di un modello compatibile con quello della superdiffusione. Si è visto, inoltre, che i contatti con la stessa età erano associati al maggior rischio di infezione, ma anche in questo caso l’articolo ammette di non essere in grado di considerare con certezza il ruolo svolto dagli individui più giovani, visti i limiti già segnalati.

Nulla di dimostrato, quindi, checché ne dica il Corriere della Sera del 2 ottobre - “Coronavirus, il potente ruolo dei superdiffusori provato su Science” - .



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