domenica 29 dicembre 2024

L’importanza della comunicazione

Co-progettazione e procedure ad evidenza pubblica
Attraverso un’intervista qualitativa strutturata a un soggetto qualificato, Ivan Fiorillo, si è voluto indagare sopra un elemento fondamentale di una procedura di co-progettazione: gli aspetti comunicativi tra gli attori coinvolti. Il questionario è stato somministrato tramite e-mail, per permettere al soggetto intervistato, vista la complessità dell’argomento e delle domande, di avere maggiore tempo a disposizione per riflettere e conseguentemente fornire risposte esaustive.

Ragionare di comunicazione nell’odierno periodo storico non prescinde da una sua pur veloce analisi. Difatti il contesto influenza l’efficacia o inefficacia delle nostre azioni. Il mondo attuale è in costante cambiamento e la sua instabilità aumenta inesorabilmente, da un giorno all’altro possono accadere avvenimenti prima inimmaginabili e la sua complessità ostacola una sua adamantina comprensione. L’incertezza in cui versa costituisce un solido impedimento all’ipotizzazione di anticipazioni o previsioni, con l’azzardo di navigare a vista omettendo punti saldi di riferimento. Se le relazioni fra oggetti e fenomeni non si palesano fuor di dubbio, non può che venir meno una visione d’insieme nell’interezza e nella globalità. Le incognite che di tanto in tanto vengono a galla non è detto siano sufficientemente correlate con potenziali minacce ad attività che abbiamo avviato, da qui l’eventualità che si facciano letali per le stesse. Non ultimo, il digitale accorcia le distanze in tutti i sensi ma complica a dismisura il lavoro di interpretazione a causa dell’ingestibile mole di dati. Anche in un tale contesto e al di là dei suoi dettagli, il primo impatto tra individui è quello che conta maggiormente, condizionando quasi all’istante la percezione soggettiva e la conseguente valutazione sull’oggetto in questione. In un decimo di secondo, poco più rispetto a un battito di ciglia, il nostro cervello etichetta chi osserviamo con annesso giudizio quasi inscalfibile. Si tratta di un procedimento figlio dell’evoluzione, conveniente nella regolare quotidianità ma profondamente pericoloso quando ci condiziona sulla base di indizi malamente significati. Il risparmio di energie ha un costo, deleterio sul posto di lavoro. E’ in tal maniera che atteggiamenti momentanei, dettati da chissà quali motivazioni contingenti, si cristallizzano in noi assolutizzandosi, ritenuti caratteri permanenti di chi ne è stato artefice. Ugualmente se siamo noi le vittime di una “giornata no” possiamo perdere l’occasione di approfondire una conoscenza perché la o il malcapitato non ha colpito la nostra attenzione, senza giammai far ricadere la colpa sul nostro stato emotivo alterato. Modificarlo risulta dispendioso e il successo non è garantito, dunque conviene a entrambe le parti fare subito una buona impressione! E’ cruciale incontrarsi di persona per avviare una forma di collaborazione, la fiducia reciproca instaurata costituirà un solido collante in vista delle fasi più operative. Lo si voglia o no, il vestiario con cui ci si presenta, quantomeno in prima istanza, rappresenta il miglior modo per influenzare positivamente il prossimo: giacca e cravatta vincono, in termini di percepita affidabilità, contro jeans e maglietta. Purtroppo sono anche i connotati facciali a trarre in trappola, con lineamenti rotondeggianti preferiti a discapito di quelli più marcati. I pregiudizi, questione di vita o di morte quando si era obbligati a riconoscere negli individui estranei al clan di appartenenza potenziali nemici, attraversano culture e popolazioni dell’intero pianeta, presentandosi quale tratto distintivo per Homo sapiens. A causa di essi chi fuoriesce dagli schemi, rigettando i codici identitari della maggioranza, non è a prescindere benvisto dalla stessa. Nascono poi su questa linea d’onda gli stereotipi, comode raffigurazioni ideali di persone che, per il mero fatto di appartenere a un gruppo, automaticamente vengono rivestite di caratteristiche considerate sempre compresenti. Si è visto che quando si tenta di abbattere pregiudizi e stereotipi la mente si affatica abbondantemente, con una maggiore attività della corteccia prefrontale, l’area che controlla pensieri e azioni; tanto che subito dopo la lucidità cognitiva subisce un significativo rallentamento. Nella coprogettazione si è tutte e tutti allo stesso livello, di conseguenza l’ambiente che fa da contesto dovrebbe altresì essere neutrale e non caratterizzato: un consiglio è quello di alternare i luoghi delle riunioni, almeno al principio dei lavori; una volta spetterà all’Ente del Terzo Settore recarsi presso la Pubblica Amministrazione, un’altra volta si farà a cambio. Già da questo istante toccherà dar vita a un team efficace e vincente, costruendolo e formandolo con un periodo di training prima che i lavori siano inaugurati. Questo è un processo che, pur avviandosi al principio, si rivela fruttuoso nella sua permanenza lungo l’intera esistenza della squadra. I vantaggi di una sua adozione sono molteplici: definisce standard di performance accettabili e non, così da focalizzare il punto di partenza e quello di arrivo; incrementa le possibilità di successo, riducendo nel medio e lungo termine i costi e i tempi; allena a fronteggiare i periodi difficili, insegnando a spegnere demotivazione e frustrazione sul sorgere e a far leva sulle soluzioni dei problemi; si acquisiscono nuove abilità, simulando persino i peggiori scenari potenziali. Per un significativo training non è dato bypassare la documentata professionalità dell’individuo formatore, c’è bisogno di una o un collega trainer che sappia assumere siffatto ruolo dando un’immagine impeccabile di sé rispetto ai contenuti della formazione. Il suo lavoro proposto è bene che si strutturi a livello sia individuale sia comunitario, con attività pensate per il singolo e per il gruppo. Di pari passo, dunque, non è tralasciabile la preparazione dell’individuo alla collaborazione con gli altri nel nuovo team: è il caso del coaching. La sua valenza sta nel valorizzare le risorse e il potenziale interiori al fine di fornire un aiuto per il raggiungimento di traguardi personali, purché non siano in contrasto con quelli del gruppo. Si insiste sulle sfere emotiva e cognitiva in una successione inalterabile di fasi. Si parte con l’individuazione dei bisogni, consistente nel sottoporre domande in grado di rendere evidenti le necessità della persona. Si prosegue con l’osservazione e la raccolta dei dati, da impiegare per sfatare convinzioni errate sul proprio conto dettate dall’emotività e impostare l’azione di intervento su un fondamento razionale. Il passo susseguente è la motivazione al cambiamento, una leva che bisogna saper azionare con cognizione di causa a seconda che la o il collega sia più reattivo al piacere o al dolore. Segue la pianificazione degli obiettivi, rintracciandone di intermedi e specificando le risorse richieste, oltre agli ostacoli e ai facilitatori eventuali. Si giunge in tal guisa all’applicazione pratica, il momento in cui si dovrebbe esser pronte e pronti ad attuare quanto appreso in precedenza, sotto la supervisione del formatore. Finalmente, spazio all’osservazione del compiuto e all’autovalutazione guidata, per mezzo di dati oggettivi sulle performance e riletture di quanto esperito. La crescita personale può benissimo prevedere interruzioni non attese cagionate da qualsiasi ragione, tocca però al coach interrompere la loro metamorfosi in frustrazione. Se si revisionano con obiettività le mete già superate, se si riafferma la fiducia nelle proprie potenzialità, se ci si riassesta inquadrando lo scoglio da altre prospettive, se si rivaluta in termini diversi la questione, se ci si riallinea nei confronti della difficoltà con una rimodulazione del piano di azione, se si riconsiderano le risorse disponibili, se si rilancia in avanti la propria energia interiore, allora si è sulla buona strada per recuperare il percorso sospeso. Dopodiché, seguendo poche e semplici regole, si addiviene in team all’applicazione fattuale dell’appreso. La prima cosa è stabilire un obiettivo adeguatamente formato. Questo dovrebbe essere specifico, preciso, oggettivo, e formulato in termini affermativi piuttosto che negativi; il rischio, altrimenti, è quello di connotare l’intero processo di un’aurea non piacevole, boicottando di fatto la bontà del lavoro e la sua buona riuscita. Dovrebbe essere misurabile, per permetterci di capire se sia stato effettivamente raggiunto o meno; alla bisogna si possono scegliere e creare i criteri per renderlo misurabile, l’importante è che questi non vadano a remare contro l’obiettivo stesso e che siano completi nella nostra valutazione, per non ritrovarci alla fine con spiacevoli sorprese. Dovrebbe essere attuabile, non ritenuto impossibile da ciascun componente della squadra; è necessario che ognuno sia intimamente convinto, poiché chi non lo è si ritroverà a mettere in campo azioni autolimitanti per non raggiungerlo, spesso a livello inconsapevole. Dovrebbe essere ripagante e portare benefici che si credono significativi; metterli in luce con chiarezza aiuta a motivare e convincere dell’unicità di ciò che si sta per fare. E dovrebbe essere scadenzato, con un limite massimo di tempo entro il quale dovrà essere realtà; non tempificare rende nella pratica aleatorie le nostre dichiarazioni e nessuno avvertirà l’incombenza dei compiti assegnati. Non si può poi prescindere dal condividere un metodo fruttuoso per la gestione delle incombenze e l’organizzazione delle risorse, con verifiche periodiche di attività e risultati. A ogni membro spetta la contribuzione al successo del team, maggiormente importante rispetto a quello personale: o ci si concentra comunitariamente sui risultati comuni, o sarà mancante la focalizzazione su di essi. Procedere passo dopo passo in tale direzione si configura come il fine ultimo dell’esistenza del gruppo. Sin da subito toccherà quindi decidere insieme ruoli chiari per ciascuno sulla base delle competenze. La fiducia reciproca è alla base di tutto, è il solo impedimento alla guerra interna fra singoli o fazioni. La mancanza di conoscenza fra le persone può determinare una sfiducia diffusa, dovuta all’ignoranza delle vulnerabilità di chi ci circonda, sicché non è possibile tralasciare momenti di sincera convivialità. Un’aspettativa innata è la convinzione di star collaborando con gente perfetta in qualsiasi àmbito della vita; basta un attimo di allontanamento dal nostro pregiudizio e con immediatezza ne ricaviamo che è più conveniente ultimare le incombenze in solitudine, rimanendo sulla difensiva. Accogliere i consigli e riconoscere gli sbagli ci aprirà gli occhi sulle buone intenzioni degli altri. Una regola aurea è scambiarsi continuamente informazioni per tenersi aggiornate e aggiornati. Una prassi realizzabile comunque soltanto quando non vi sono dubbi sulla suddivisione dei compiti: sapere chi fa che cosa ed entro quando responsabilizza i membri l’uno nei riguardi dell’altro. Se si vogliono mantenere alti gli standard di qualità è oltremodo utile che i componenti si richiamino reciprocamente alle proprie incombenze; in tal maniera gli individui più lenti avvertiranno la pressione al miglioramento e la messa in discussione dell’operato altrui aiuterà a identificare tempestivamente questioni problematiche, senza sentirsi a disagio nel porre in rilievo quanto non funziona o è controproducente per i fini stabiliti. Una responsabilità condivisa che ostacoli il meccanismo dello scaricabarile, tipico dei contesti in cui non ci si sente coinvolte o coinvolti e non si percepisce il proprio contributo. Quasi un’imposizione è quella di contribuire attivamente al gruppo, partecipando con impegno. In effetti, però, ci si può impegnare in qualcosa solo a patto che le regole di funzionamento siano ben chiare: se l’assegnazione dei compiti non è limpida, si sarà autorizzati a operare lascivamente. Ma lo zelo può venir meno inoltre nel caso in cui non si condivida appieno uno o più elementi del progetto. Chi è restio a esprimere dichiaratamente la propria opinione, magari perché vittima di esperienze precedenti traumatiche in tal senso, non farà emergere il disaccordo su quanto non approvato, senza peraltro assumere come accettabili le decisioni altrui. Si evitino le ambiguità, consistenti talvolta nel non dare seguito alle disposizioni concordate, talaltra nel farle passare come frutto unicamente del proprio ingegno. Pur essendo comprensibilmente difficoltoso per chi non è abituato, confrontarsi in maniera costruttiva nell’incontro fra punti di vista differenti è la chiave di successo per qualunque team. Un’occasione di crescita cui a volte si rinuncia pur di non impiegare troppe energie fisiche e mentali, specie se si teme di perdere o di dover ammettere gli errori commessi. Il risvolto della medaglia è nondimeno peggiore, dacché l’apparente armonia respirabile non è che una finzione artificiale, silenziatrice di potenziali discussioni spontanee. Purché non si dia spazio ad attacchi personali, il conflitto costruttivo, incentrato sulle idee e sui fatti, serve a far considerare ogni membro sul medesimo piano degli altri e a far detonare di conseguenza una fiducia fondata sulla vulnerabilità reciproca. Infine, che si alimenti un clima proficuo nel rispetto vicendevole. La socialità è un bisogno primario dell’essere umano, ma altrettanto lo è la sicurezza. L’ignoto e l’imprevisto destabilizzano, e non si sa mai con certezza come saranno le proprie e i propri colleghi, seppur temporanei. A nulla valgono i talenti singoli e i curricula chilometrici quando l’ambiente del team non è sano: lungi dall’essere la mera somma dei suoi componenti, quest’ultimo appare essere una realtà complessa in stretta relazione con i personali livelli di autoconsapevolezza. In presenza di un’atmosfera stimolante, i membri non possono che essere motivati a lavorare di squadra; in presenza, per converso, di un’atmosfera tossica, gli obiettivi non diverranno che una chimera irraggiungibile e nemmeno così tanto desiderabile. Gli individui che si ritrovano a operare di comune accordo in un progetto di cooperazione possono portare appresso caratteristiche ed esperienze diverse, ma necessitano di valori e traguardi comuni. E si migliora persino nella propria soggettività, perché si trasformano in realtà situazioni altrimenti irrealizzabili individualmente. Un pericolo da fugare è il soffocamento delle singole capacità proprie o altrui, per il timore di errare o suscitare invidia; in un caso del genere, paradossalmente, i singoli farebbero di più e meglio se non inseriti in un gruppo. Aiutare a sprigionare le individualità costituisce un ottimo velocizzatore di processi, se non accade si prova insoddisfazione e ci si orienta piuttosto sull’alimentazione di conflitti latenti non gestiti apertamente. E’ auspicabile che un ambiente sano di collaborazione spinga al confronto diretto, abbandonando la paura di poter perdere alcunché.

Aver impostato con adeguatezza il lavoro equivale a essere quasi a metà strada. Nella conduzione dei tavoli, tuttavia, nuove attenzioni e accortezze da riservare ai componenti appaiono irrinunciabilmente. Nessuno impone che tutti i membri debbano per forza prendere parte a ogni singola riunione: si inviti soltanto chi potrà trarne beneficio e risulta indispensabile. Non bisognerebbe prescindere da incontri ben focalizzati sul punto da trattare, nel minor tempo e nel miglior modo possibile, con un dettagliato programma da mettere in condivisione per dare tempo ai membri partecipanti di prepararsi a dovere e formulato secondo interrogativi che stimolino la creatività individuale; da non trascurare il giorno e l’orario di convocazione, meglio se a metà settimana e a metà mattinata, ma possibilmente non una sola volta ogni 7 giorni. Mai più di 45 minuti di seguito e, se si ritiene necessario proseguire, che la pausa sia abbastanza lunga da riprendere le forze perdute. Il lunedì risente del week-end appena trascorso ed è rivestito di una connotazione malinconica, mentre il venerdì si è provati per il duro lavoro e troppo proiettati verso il riposo dei giorni successivi. Non è un mistero che nella suddetta fascia oraria, quando si è tutti più freschi e liberi delle incombenze che si accumulano con l’avanzare delle lancette, la produttività è spiccatamente più alta. Privilegiare cifre tonde, per gli orari, ha il vantaggio di renderli memorizzabili con maggiore facilità. La comodità delle teleriunioni è certo non sottovalutabile, ma non è benefico ridursi all’online sempre e comunque: una ragionevole alternanza è piacevole e motivante. Che si sia online od offline, un’imposizione generale sempre valida dovrebbe essere quella di escludere le distrazioni e rimanere concentrati sul punto; niente cellulari et similia se non richiesti per i compiti da eseguire. In presenza, non si comprende per quale oscuro motivo imperi tuttora l’abitudine di riunirsi in posizione seduta; stando in piedi, per converso, ci si può esprimere con più efficacia ed efficienza, tenendo alto l’umore, con l’accorgimento di non alimentare atteggiamenti di superiorità o inferiorità dettati dall’aspetto fisico. Le statistiche sulla partecipazione alle videoconferenze sono a dir poco disarmanti e ci autorizzano a concludere che dedicarsi ad altro in contemporanea costituisce quasi la norma per chiunque. Accortezze tecniche - rimanere con video e audio accesi - e relazionali - incentivare un clima familiare e rispettare il programma - sono utili strumenti di mitigazione. Nel corso dell’incontro, avere qualcuno che annoti in un verbale le discussioni avvenute e le decisioni prese, per farle circolare al suo termine a beneficio degli intervenuti e degli assenti, sarebbe opportuno; ma in realtà lo svantaggio ricade sul quasi inevitabilmente inesistente contributo alla discussione da parte della persona designata, meglio quindi fare un uso intelligente di software dedicati alla registrazione con conseguente trascrizione automatica. Se inoltre si inizia con 5 minuti di conversazione rilassata e si termina con 5 minuti di briefing sul da farsi, il gioco è fatto. Da rigettare senza se e senza ma la moda a sufficienza diffusa consistente nel dare la parola unicamente a chi tiene in mano un oggetto che funge da segnalino, vietando a tutto il resto della platea di intervenire; oltre a essere una ridicola pratica mutuata da ambienti di certo più infantili, è deleteria nella misura in cui non educa il gruppo al rispetto del parlante e non stimola l’autentico confronto che dovrebbe adombrare l’animus essenziale dell’incontro. Non di rado può capitare di trovarsi di fronte a team multigenerazionali, si calcola che nelle aziende possono attualmente convivere fino a quattro generazioni di individui profondamente dissimili nei valori e nelle ambizioni. Baby boomer, X generation, millennial, Z generation: è molto forte il rischio della loro contrapposizione. I baby boomer, nati fra il 1946 e il 1965, hanno attraversato l’immediato secondo dopoguerra e il loro nome richiama i relativi boom demografico ed economico; il loro mondo era completamente diverso rispetto a quello dei loro genitori e sono stati protagonisti di rivoluzioni socioculturali senza precedenti; rappresentano attualmente il numero più nutrito di leader in contesti aziendali, come frutto delle politiche pensionistiche europee; il loro approccio al lavoro è classico, cercano sicurezza, dedicano molto tempo al proprio mestiere, sono competitivi ed esperti per le mansioni di cui si occupano. La X generation, cioè i nati fra il 1966 e il 1980, è formata da chi è cresciuto in un’epoca di smantellamento progressivo della società nei suoi nuclei precipui, all’insegna dell’intrattenimento a tutti i costi; essi non sono abituati a rivestire posizioni di comando né nel pubblico né nel privato; sono stati tendenzialmente i protagonisti dell’introduzione dell’informatica nei contesti lavorativi; sanno bilanciare l’occupazione con la vita familiare, hanno uno stile democratico di gestione dei gruppi e preferiscono non controllare in modo pedissequo le attività dei propri dipendenti. I millennial, nati fra il 1981 e il 1996, sono i cosiddetti “nativi digitali”, perché sin dall’infanzia hanno convissuto a stretto contatto con gli strumenti elettronici; la maggior parte delle e dei lavoratori al mondo appartiene a siffatta categoria, con i social media come mezzo privilegiato di comunicazione; non amano i lavori meccanici e ripetitivi, si aspettano che le colleghe e i colleghi superiori valorizzino la loro creatività, si trovano in difficoltà se non si sentono seguiti quasi step by step e sono orientati al raggiungimento dei risultati; sono disposti a trasferimenti d’azienda quando si imbattono in circostanze più attrattive e più affini ai valori in cui credono. La Z generation, cioè i nati fra il 1997 e il 2012, racchiude individui provenienti da disparate zone del pianeta, ciascuno con la propria cultura; essendo cresciuti con il Web già fortemente avviato, esprimono notevoli preferenze riguardo ai social media utilizzati, in parte per distaccarsi da possibili controlli effettuati online dai genitori; sono avvezzi alla velocità e quasi istantaneità nella comunicazione, così come alla totale accessibilità delle informazioni soprattutto con i dispositivi mobili; idealisti e visionari, non disdegnano lotte di maniera nella volontà di battersi in difesa dei propri valori e credono nelle potenzialità del dialogo per risolvere i conflitti; sono alla ricerca di sicurezza e stabilità, svolgono in contemporanea più occupazioni perché non credono nel cosiddetto posto fisso e sono pronti a vivere cambiamenti di carriera in base alle offerte ricevute. In un simile marasma di generazioni, sta all’individuo leader della squadra agire al fine di evitare le incomprensioni per non compromettere la scorrevolezza delle mansioni. Il leader, figura dalle caratteristiche non negoziabili, è colei o colui al quale è demandata la guida, un servizio che si rende alla comunità assumendosi la responsabilità di successi e insuccessi; non si impone su alcuno, bensì è riconosciuto dalla totalità delle persone come un facilitatore dei processi. Nel particolare, il suo compito è la gestione delle risorse disponibili occupandosi degli sviluppi, delle contingenze e delle pianificazioni. Deve saper trovare soluzioni semplici ai problemi complessi, poiché non esiste solamente un approccio giusto per ottenere il risultato sperato. L’abilità di reperire e analizzare, con un pensiero divergente, le varie informazioni disponibili prende il nome di problem solving, indirizzato alla definizione della migliore scelta possibile in base ai fatti conosciuti, al contesto di riferimento e alle conseguenze ipotizzate. Nel mondo di oggi gli scenari si compongono secondo vie sempre più intricate, perciostesso è inefficiente limitarsi a una riproposizione di strade già tracciate in passato. Vitale è, purtuttavia, una trasposizione di tale sensibilità all’intero team: l’unione fa la forza! Proprio per la volatilità del mondo odierno e delle sue sfide, occorrono abilità di giudizio e analisi. Una certa elasticità mentale consente di cogliere meglio connessioni e referenze, allenandosi a destrutturare le questioni che si presentano, decodificarne gli elementi e analizzarli con occhi nuovi; da simili meccanismi si trovano a sorgere legami inattesi fra progetti o parti di un progetto. L’intelligenza emotiva, poi, andrebbe forse al primissimo posto, invero. Non vi è settore in cui riconoscere, utilizzare, comprendere e gestire con consapevolezza le emozioni proprie e altrui non faccia la differenza. La scienza ci viene in soccorso da decenni su questo fronte, fornendoci strumenti per diventare protagoniste e protagonisti dello stato emotivo in cui ci si trova e virarlo a piacimento a seconda dei propri desiderata; d’altro canto, ci consegna gli strumenti per non nuocere emotivamente agli altri e anzi aiutarli a ritrovare il benessere psicofisico perduto. Orientato al risultato, il leader incarna la stessa attitudine nei confronti della competizione. Si vince una volta sola, al termine dei lavori, ma quella vittoria dipende da azioni quotidiane svolte con eccellenza senza - quasi - mai deflettere. Veniamo all’abilità di comunicazione, da intendere nella più ampia accezione concepibile: persuadere i membri del gruppo, informare i soggetti esterni, sfruttare le potenzialità della rete. Nulla andrebbe nascosto o sottaciuto, dacché qualcun altro potrebbe di propria iniziativa decidere di divulgarlo surclassando la figura di guida, con i relativi disguidi nei rapporti fra i ruoli. Privandosi inoltre di una flessibilità cognitiva, non potrebbe in alcun modo profittare dei cambiamenti inesorabili con strategie vòlte alla crescita della squadra e alla ritaratura del progetto, di fatto una sfida da rimodulare in leva obbligata di innovazione. Non è un segreto che l’iniziativa personale e la capacità di prendere decisioni si misurino essenzialmente nelle contingenze non proficue. Finché tutto procede secondo le aspettative, le acque calme accompagnano con delicatezza il remeggio dell’imbarcazione; ma appena si scatena la tempesta, è l’abile capitano a segnare la differenza per salvare la vita all’equipaggio. Veder tentennare chi è al comando non è affatto rassicurante e i danni dell’imprevisto rischiano di moltiplicarsi a cascata. E se si dovesse fallire? Fare sempre tutto giusto non è umanamente pensabile, eppure la buona notizia è che non è neppure desiderabile per il bene del team. E’ dagli errori di uno che tutti gli altri possono apprendere, è dai passi falsi compiuti che si innescano corsi di miglioramento. Ciò che conta, lasciata alle spalle la difficoltà, è mantenere salvo quanto di positivo si è esperimentato e riorganizzare in termini maggiormente adatti la squadra di lavoro. In una parola: resilienza, in reazione al fallimento. Quanto finora ampiamente descritto, purtuttavia, vano sarebbe se deficitario fosse il sostrato vitale di un qualunque rapporto umano votato alla cooperazione; l’etica della comunicazione, se non assurge a linfa e bandiera delle relazioni interne al gruppo, mai potrà essere applicata all’esterno di esso. “Comunicazione” da intendere non come “informazione” bensì come “compartecipazione”, nel senso della dischiusura di uno spazio comune di relazione fra interlocutori che semplicemente ci sono e sono consci della presenza altrui. Il cominciamento dell’interazione, idealmente, prevede una formulazione condivisa delle regole da rispettare, assumendo di impegnarsi a non trasgredirle e promettendo di utilizzare lo strumento del linguaggio senza inganni. In assenza di un rapporto fiduciario non esisterebbe alcun atto comunicativo, per definizione. Verità, che è corrispondenza tra ciò che è e ciò che si afferma, e veridicità, che è corrispondenza tra ciò che si pensa e ciò che si afferma, sono faro intransigente per lo stare insieme, di concerto con l’attribuzione al messaggio di un senso comprensibile all’altro. La forza dell’etica sta nel suo riferirsi al diritto naturale sovrapponendosi alle transitorie morali, è il principio motore dell’agire umano che riflette su di sé e si interroga sui propri valori.

Non basta il mero traguardamento se gli esiti rimangono circoscritti tra le mura degli uffici. La cittadinanza possiede il diritto di essere informata sui procedimenti attivati e conchiusi da chi stipendia con il proprio denaro, ugualmente i promotori di forme associative dedite al sociale rivestono il dovere di far conoscere al pubblico le iniziative cui si è lavorato. Se pure in corso d’opera è degno di lode l’aggiornamento costante verso l’esterno, questo si rende necessario al termine dei tavoli. Rispettare gli obblighi di legge non comporta l’automatica esclusione di operazioni non previste: ciò costituisce un classico caveat per le nostre amministrazioni, duro da abbattere. La comunicazione deve essere un’autoimposizione innanzitutto etica, a mo’ di giustificazione nei confronti della comunità per il ruolo ricoperto. Abbandoniamo la riduzione ai soliti comunicati istituzionali per mezzo stampa o etere, e organizziamo eventi dal vivo per stare in mezzo alla gente mostrando di persona quanto si è potuto cavare dal buco, invitando gli altri Enti del Terzo Settore afferenti al medesimo territorio; a qualcuno di loro potrebbe balzare in mente l’idea di intraprendere un percorso simile di coprogettazione. La scelta delle e degli interlocutori, a stretto contatto con la cittadinanza, andrà svolta con accurata oculatezza. Nel “mettere in comune” i messaggi da condividere non ci si potrà dimenticare che perfino la sola presenza comunica senza volerlo: non-verbale e paraverbale la fanno da padroni. Parlare in pubblico implica l’attivazione di una relazione con l’altro, che è sincera esclusivamente se il mittente si premura di essere comprensibile e il destinatario si concentra sul messaggio in arrivo. E’ l’incontro o scontro di due mondi, in alcuni casi sideralmente lontani; la condivisione di un codice comune non si presenta come un’opzione quanto come una costrizione. L’invio involontario di messaggi questionabili od offensivi, non necessariamente verbali, è da evitare se non si vuole mandare all’aria tutto il lavoro precedente svoltosi in team. Olisticamente la comunicazione dell’esserci, nella pretta presenza, non è che il comportamento che assumiamo. Si può semplificare sostenendo che, per approssimazione, nella trasmissione di un messaggio il 55% dipenda dal non-verbale, il 38% dal paraverbale e il 7% dal verbale? No, decisamente: è una bufala. Tutto parte da uno studio degli anni Settanta, in cui quelle testé riportate rappresentano le percentuali di influenza che i tre canali esercitano sul destinatario quando almeno uno di essi è discordante dagli altri e il messaggio ha una valenza emotiva. L’intuizione ci viene in aiuto, poiché se qualcuno asserisce di provare una certa emozione ma il suo volto ne tradisce un’altra allora siamo portati a fidarci più dell’espressione che delle parole. D’altronde altre ricerche hanno messo in luce come una sparutissima percentuale di popolazione sia naturalmente agile nella corretta interpretazione del non-verbale. L’equivoco scaturisce dall’uso improprio che individui pseudoformatori e guru di ogni sorta ne hanno fatto, generalizzando la regola estrinsecata a casi non conformi alla sua formulazione originaria. Sì, la maggior parte della comunicazione - ossia dell’essere presenti in un dato luogo con delle date persone - non è verbale, ma quasi nessuno è fornito delle competenze fondamentali per afferrare il significato di messaggi indiretti lanciati dalla voce e dal corpo. Niente da fare, è la parola per Homo sapiens il mezzo privilegiato di trasferimento culturale. Ne deriva un’assunzione di responsabilità che non trova paragoni in altri àmbiti della vita: ogniqualvolta entriamo in relazione con il prossimo semplicemente essendoci, volenti o nolenti diveniamo responsabili della stessa relazione; e se apriamo pure bocca, non ne parliamo! L’abilità di rispondere, etimologicamente, si traduce nella consapevolezza che il successo dell’atto linguistico e metalinguistico è dipendente dal mittente in maniera esclusiva, sotto la sua responsabilità. Il destinatario ha il diritto di non comprendere e la facoltà di richiedere delucidazioni, in effetti necessarie se sottoposte come feedback. Tali delucidazioni, nondimeno, possono essere o apparire attacchi o critiche di diversa intensità. Compito della e del comunicatore è riuscire a fornire una risposta soddisfacente senza scadere nella negazione o, peggio, nell’aggressività. Sgradevole sarebbe notare un’incoerenza manifesta tra l’apparente bontà delle parole e l’evidente fastidio della mimica facciale, non sempre gestibile in quanto vi sono movimenti involontari che sfuggono perfino alla scaltrezza del più esperto. Il segreto è effettuare a monte un serio lavoro di gestione emozionale per affrontare con serenità i contesti conflittuali. Allo stesso tempo, classicamente alcune posizioni del corpo e atteggiamenti cinestesici vengono ritenuti espressione di precise intenzioni inconfessate; evitare di farne uso mette al riparo dai fraintendimenti. Ribaltando il punto di vista, se la presentatrice o il presentatore del progetto è un professionista dovrà porre attenzione all’accumulo di simili segnali, che se più d’uno potranno ragionevolmente essere intesi secondo la tradizionale rappresentazione. Silenzi imbarazzanti, sguardi dubbiosi, tic esagerati... Non è mai troppo tardi per ovviare al disagio e ricalibrare la marcia. In generale, i messaggi fisici sono classificabili in tre tipologie: scarico di tensione, rifiuto e gradimento. I primi segnalano uno stato di imbarazzo, ansia, stress; grattamenti, dondolii, sorrisi forzati, schiarimenti di voce e variazioni neuro-fisiologiche percepibili dall’esterno. I secondi esprimono un categorico rigetto dell’argomento o del parlante; allontanamenti fisici, incupimenti del viso, posizioni di difesa, sfregamenti del naso, distanziamenti degli oggetti. I terzi significano una incondizionata attrazione nei confronti dell’argomento o del parlante; movimenti delle labbra, avvicinamenti fisici, autoaccarezzamenti. Alla sfera del paraverbale, invece, pertengono il tono, il ritmo, il volume e il timbro vocali. Modulando la voce si possono suscitare le emozioni desiderate nel pubblico, in base agli obiettivi auspicabilmente raggiungibili; così come un sapiente utilizzo di pause e silenzi arricchisce il messaggio e può aiutare la concentrazione. Ascolto attivo e lettura del feedback sono gli strumenti fondamentali per tarare il rapporto diretto nel caso di domande e interventi spontanei. Ascoltare, non attendere il proprio turno per riprendere la parola; ascoltare, a costo di ignorare l’innato bisogno di sicurezza; ascoltare, rischiando di approcciare visioni del mondo distanti anni luce dalla nostra. Lungi dalla pura percezione delle parole e dal mero riconoscimento delle sfumature para- e non-verbali, un trucco dell’ascolto attivo è appunto partecipare attivamente all’interlocuzione. Da un lato, ripetere quanto si è appena udito sintetizzandolo e parafrasandolo; dall’altro lato, porre le domande giuste nei momenti più opportuni, consce e consci che esse possono presentarsi come chiuse o aperte. Il bravo comunicatore sa inoltre distinguere, fra queste ultime, le dirette - che mirano con immediatezza alla questione - , le indirette - più generiche e libere - e quelle di stimolo - il cui scopo è invitare l’altro a parlare - . La calibrazione della manipolazione in tali contesti, attuabile con interrogazioni già contenenti in nuce le risposte o volutamente dirottate su alcuni aspetti di interesse, sta all’etica professionale e alla morale personale. Entrare in comunicazione equivale a dismettere le proprie mappe mentali nel confronto con quelle altrui. Alla stregua del Dna, è decisamente impossibile che due persone condividano alla perfezione il medesimo modo di interpretare la realtà. Intuire i modi di ragionare e di emozionarsi, ma anche le idee, i bisogni e i desideri di chi abbiamo di fronte, è preludio imprescindibile per aiutarci a confezionare il miglior messaggio che sia possibile per la sua comprensione e accettazione. Sappiamo ormai che ciascuno di noi adopera, privilegiandolo, un senso specifico nella decodificazione degli stimoli esterni. Chi tendenzialmente ha un’intelligenza visiva ricostruisce nella mente il mondo in base a ciò che vede, ricorda mediante le immagini, utilizza metafore visive, guarda l’interlocutore negli occhi, parla velocemente, gesticola come per tracciare in aria i concetti e tiene tanto alla cura dell’aspetto; essendo che il suo linguaggio afferisce alla sfera del guardare, parlandoci sarà conveniente fare uso delle caratteristiche testé descritte. Chi tendenzialmente ha un’intelligenza uditiva ha contezza del mondo attraverso i suoni, sa usare eccellentemente l’arte dell’oratoria, non ha l’abitudine di guardare negli occhi, assume posizioni rilassate mentre parla, tiene una cadenza ritmata e regolare pure nel respiro, soppesa ogni singola parola e addirittura le pause, adopera termini onomatopeici, il suo timbro è melodioso ed è portato a inclinare la testa come per porgere l’orecchio all’ascolto; l’idioletto di un uditivo è ricco di vocaboli legati al sentire ed è soprattutto estremamente preciso, razionale e analitico, sicché mette conto padroneggiare il proprio tono di voce e non usare parole a casaccio. Chi, infine, ha tendenzialmente un’intelligenza cinestesica fa esperienza del sensibile in maniera spintamente diretta e pratica, ama la manualità, memorizza grazie alle sensazioni provate, non sa nascondere le emozioni, si muove nello spazio con scioltezza e pacatezza, porta spesso lo sguardo verso il basso e cerca il contatto fisico con la controparte; acciocché si catturi la sua attenzione, è preferibile proporre anche linguisticamente dimostrazioni attive di quanto affermato. Nei primissimi istanti si dovrebbe essere in grado di classificare, secondo la presente categorizzazione, il destinatario del messaggio, non scadendo tuttavia in una generalizzazione schematica ideale e non reale. Peraltro non di rado vi possono essere mescolanze fra l’una e l’altra proposta, noi stesse e noi stessi potremmo variabilmente mutare atteggiamento a seconda delle situazioni, ma adattare immediatamente la comunicazione al ricevente ci mette al sicuro dall’insuccesso. Questi deve percepire il mittente come un individuo simile a se stesso, cosa che è simulabile incarnandone il comportamento. Alla fine avremo portato a casa non unicamente una proficua trasmissione di informazioni, bensì anche una fruttuosa campagna di sensibilizzazione all’impegno profuso nello sviluppo territoriale.

1 commento:

  1. Mi è piaciuto il valore che è stato dato agli aspetti comunicativi e alla costruzione di un ambiente collaborativo per il successo di progetti comuni. Mi è piaciuto anche il fatto di riuscire a creare un team coeso con obiettivi condivisi assieme a una adeguata formazione, comprendente training e coaching al fine di migliorare competenze individuali e collettive. La comunicazione etica e l'ascolto attivo (condivido pirnamente) sono elementi fondamentali insieme alla definizione chiara di ruoli, obiettivi misurabili e tempistiche. Infine, condivido anche che la fiducia reciproca e il rispetto delle diversità multigenerazionali, all'interno di un team, sono essenziali per evitare conflitti e promuovere il successo.

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