Attraverso un’intervista qualitativa strutturata a un soggetto qualificato, Ivan Fiorillo, si è voluto indagare sopra un elemento fondamentale di una procedura di co-progettazione: gli aspetti comunicativi tra gli attori coinvolti. Il questionario è stato somministrato tramite e-mail, per permettere al soggetto intervistato, vista la complessità dell’argomento e delle domande, di avere maggiore tempo a disposizione per riflettere e conseguentemente fornire risposte esaustive.
Ragionare di comunicazione nell’odierno periodo storico non prescinde da una
sua pur veloce analisi. Difatti il contesto influenza l’efficacia o inefficacia
delle nostre azioni. Il mondo attuale è in costante cambiamento e la sua
instabilità aumenta inesorabilmente, da un giorno all’altro possono accadere
avvenimenti prima inimmaginabili e la sua complessità ostacola una sua
adamantina comprensione. L’incertezza in cui versa costituisce un solido
impedimento all’ipotizzazione di anticipazioni o previsioni, con l’azzardo di
navigare a vista omettendo punti saldi di riferimento. Se le relazioni fra
oggetti e fenomeni non si palesano fuor di dubbio, non può che venir meno una
visione d’insieme nell’interezza e nella globalità. Le incognite che di tanto
in tanto vengono a galla non è detto siano sufficientemente correlate con
potenziali minacce ad attività che abbiamo avviato, da qui l’eventualità che si
facciano letali per le stesse. Non ultimo, il digitale accorcia le distanze in
tutti i sensi ma complica a dismisura il lavoro di interpretazione a causa
dell’ingestibile mole di dati. Anche in un tale contesto e al di là dei suoi
dettagli, il primo impatto tra individui è quello che conta maggiormente,
condizionando quasi all’istante la percezione soggettiva e la conseguente
valutazione sull’oggetto in questione. In un decimo di secondo, poco più
rispetto a un battito di ciglia, il nostro cervello etichetta chi osserviamo
con annesso giudizio quasi inscalfibile. Si tratta di un procedimento figlio
dell’evoluzione, conveniente nella regolare quotidianità ma profondamente
pericoloso quando ci condiziona sulla base di indizi malamente significati. Il
risparmio di energie ha un costo, deleterio sul posto di lavoro. E’ in tal
maniera che atteggiamenti momentanei, dettati da chissà quali motivazioni
contingenti, si cristallizzano in noi assolutizzandosi, ritenuti caratteri
permanenti di chi ne è stato artefice. Ugualmente se siamo noi le vittime di una
“giornata no” possiamo perdere l’occasione di approfondire una conoscenza
perché la o il malcapitato non ha colpito la nostra attenzione, senza giammai
far ricadere la colpa sul nostro stato emotivo alterato. Modificarlo risulta
dispendioso e il successo non è garantito, dunque conviene a entrambe le parti
fare subito una buona impressione! E’ cruciale incontrarsi di persona per
avviare una forma di collaborazione, la fiducia reciproca instaurata costituirà
un solido collante in vista delle fasi più operative. Lo si voglia o no, il
vestiario con cui ci si presenta, quantomeno in prima istanza, rappresenta il
miglior modo per influenzare positivamente il prossimo: giacca e cravatta
vincono, in termini di percepita affidabilità, contro jeans e maglietta. Purtroppo sono anche i connotati facciali a
trarre in trappola, con lineamenti rotondeggianti preferiti a discapito di
quelli più marcati. I pregiudizi, questione di vita o di morte quando si era
obbligati a riconoscere negli individui estranei al clan di appartenenza potenziali nemici, attraversano culture e
popolazioni dell’intero pianeta, presentandosi quale tratto distintivo per Homo sapiens. A causa di essi chi
fuoriesce dagli schemi, rigettando i codici identitari della maggioranza, non è
a prescindere benvisto dalla stessa. Nascono poi su questa linea d’onda gli
stereotipi, comode raffigurazioni ideali di persone che, per il mero fatto di
appartenere a un gruppo, automaticamente vengono rivestite di caratteristiche
considerate sempre compresenti. Si è visto che quando si tenta di abbattere
pregiudizi e stereotipi la mente si affatica abbondantemente, con una maggiore
attività della corteccia prefrontale, l’area che controlla pensieri e azioni;
tanto che subito dopo la lucidità cognitiva subisce un significativo
rallentamento. Nella coprogettazione si è tutte e tutti allo stesso livello, di
conseguenza l’ambiente che fa da contesto dovrebbe altresì essere neutrale e
non caratterizzato: un consiglio è quello di alternare i luoghi delle riunioni,
almeno al principio dei lavori; una volta spetterà all’Ente del Terzo Settore
recarsi presso la Pubblica Amministrazione, un’altra volta si farà a cambio.
Già da questo istante toccherà dar vita a un team efficace e vincente, costruendolo e formandolo con un periodo
di training prima che i lavori siano
inaugurati. Questo è un processo che, pur avviandosi al principio, si rivela
fruttuoso nella sua permanenza lungo l’intera esistenza della squadra. I
vantaggi di una sua adozione sono molteplici: definisce standard di performance accettabili
e non, così da focalizzare il punto di partenza e quello di arrivo; incrementa
le possibilità di successo, riducendo nel medio e lungo termine i costi e i
tempi; allena a fronteggiare i periodi difficili, insegnando a spegnere demotivazione
e frustrazione sul sorgere e a far leva sulle soluzioni dei problemi; si
acquisiscono nuove abilità, simulando persino i peggiori scenari potenziali.
Per un significativo training non è
dato bypassare la documentata professionalità dell’individuo formatore, c’è
bisogno di una o un collega trainer
che sappia assumere siffatto ruolo dando un’immagine impeccabile di sé rispetto
ai contenuti della formazione. Il suo lavoro proposto è bene che si strutturi a
livello sia individuale sia comunitario, con attività pensate per il singolo e
per il gruppo. Di pari passo, dunque, non è tralasciabile la preparazione
dell’individuo alla collaborazione con gli altri nel nuovo team: è il caso del coaching.
La sua valenza sta nel valorizzare le risorse e il potenziale interiori al fine
di fornire un aiuto per il raggiungimento di traguardi personali, purché non
siano in contrasto con quelli del gruppo. Si insiste sulle sfere emotiva e
cognitiva in una successione inalterabile di fasi. Si parte con l’individuazione
dei bisogni, consistente nel sottoporre domande in grado di rendere evidenti le
necessità della persona. Si prosegue con l’osservazione e la raccolta dei dati,
da impiegare per sfatare convinzioni errate sul proprio conto dettate
dall’emotività e impostare l’azione di intervento su un fondamento razionale. Il
passo susseguente è la motivazione al cambiamento, una leva che bisogna saper
azionare con cognizione di causa a seconda che la o il collega sia più reattivo
al piacere o al dolore. Segue la pianificazione degli obiettivi,
rintracciandone di intermedi e specificando le risorse richieste, oltre agli
ostacoli e ai facilitatori eventuali. Si giunge in tal guisa all’applicazione
pratica, il momento in cui si dovrebbe esser pronte e pronti ad attuare quanto
appreso in precedenza, sotto la supervisione del formatore. Finalmente, spazio
all’osservazione del compiuto e all’autovalutazione guidata, per mezzo di dati
oggettivi sulle performance e
riletture di quanto esperito. La crescita personale può benissimo prevedere
interruzioni non attese cagionate da qualsiasi ragione, tocca però al coach interrompere la loro metamorfosi
in frustrazione. Se si revisionano con obiettività le mete già superate, se si
riafferma la fiducia nelle proprie potenzialità, se ci si riassesta inquadrando
lo scoglio da altre prospettive, se si rivaluta in termini diversi la
questione, se ci si riallinea nei confronti della difficoltà con una
rimodulazione del piano di azione, se si riconsiderano le risorse disponibili,
se si rilancia in avanti la propria energia interiore, allora si è sulla buona
strada per recuperare il percorso sospeso. Dopodiché, seguendo poche e semplici
regole, si addiviene in team all’applicazione
fattuale dell’appreso. La prima cosa è stabilire un obiettivo adeguatamente
formato. Questo dovrebbe essere specifico, preciso, oggettivo, e formulato in
termini affermativi piuttosto che negativi; il rischio, altrimenti, è quello di
connotare l’intero processo di un’aurea non piacevole, boicottando di fatto la
bontà del lavoro e la sua buona riuscita. Dovrebbe essere misurabile, per
permetterci di capire se sia stato effettivamente raggiunto o meno; alla
bisogna si possono scegliere e creare i criteri per renderlo misurabile,
l’importante è che questi non vadano a remare contro l’obiettivo stesso e che
siano completi nella nostra valutazione, per non ritrovarci alla fine con
spiacevoli sorprese. Dovrebbe essere attuabile, non ritenuto impossibile da
ciascun componente della squadra; è necessario che ognuno sia intimamente
convinto, poiché chi non lo è si ritroverà a mettere in campo azioni
autolimitanti per non raggiungerlo, spesso a livello inconsapevole. Dovrebbe
essere ripagante e portare benefici che si credono significativi; metterli in luce
con chiarezza aiuta a motivare e convincere dell’unicità di ciò che si sta per
fare. E dovrebbe essere scadenzato, con un limite massimo di tempo entro il
quale dovrà essere realtà; non tempificare rende nella pratica aleatorie le
nostre dichiarazioni e nessuno avvertirà l’incombenza dei compiti assegnati. Non
si può poi prescindere dal condividere un metodo fruttuoso per la gestione delle
incombenze e l’organizzazione delle risorse, con verifiche periodiche di
attività e risultati. A ogni membro spetta la contribuzione al successo del team, maggiormente importante rispetto a
quello personale: o ci si concentra comunitariamente sui risultati comuni, o
sarà mancante la focalizzazione su di essi. Procedere passo dopo passo in tale
direzione si configura come il fine ultimo dell’esistenza del gruppo. Sin da
subito toccherà quindi decidere insieme ruoli chiari per ciascuno sulla base
delle competenze. La fiducia reciproca è alla base di tutto, è il solo impedimento
alla guerra interna fra singoli o fazioni. La mancanza di conoscenza fra le
persone può determinare una sfiducia diffusa, dovuta all’ignoranza delle
vulnerabilità di chi ci circonda, sicché non è possibile tralasciare momenti di
sincera convivialità. Un’aspettativa innata è la convinzione di star collaborando
con gente perfetta in qualsiasi àmbito della vita; basta un attimo di allontanamento
dal nostro pregiudizio e con immediatezza ne ricaviamo che è più conveniente
ultimare le incombenze in solitudine, rimanendo sulla difensiva. Accogliere i
consigli e riconoscere gli sbagli ci aprirà gli occhi sulle buone intenzioni
degli altri. Una regola aurea è scambiarsi continuamente informazioni per
tenersi aggiornate e aggiornati. Una prassi realizzabile comunque soltanto
quando non vi sono dubbi sulla suddivisione dei compiti: sapere chi fa che cosa
ed entro quando responsabilizza i membri l’uno nei riguardi dell’altro. Se si
vogliono mantenere alti gli standard di
qualità è oltremodo utile che i componenti si richiamino reciprocamente alle
proprie incombenze; in tal maniera gli individui più lenti avvertiranno la
pressione al miglioramento e la messa in discussione dell’operato altrui aiuterà
a identificare tempestivamente questioni problematiche, senza sentirsi a
disagio nel porre in rilievo quanto non funziona o è controproducente per i
fini stabiliti. Una responsabilità condivisa che ostacoli il meccanismo dello
scaricabarile, tipico dei contesti in cui non ci si sente coinvolte o coinvolti
e non si percepisce il proprio contributo. Quasi un’imposizione è quella di contribuire
attivamente al gruppo, partecipando con impegno. In effetti, però, ci si può
impegnare in qualcosa solo a patto che le regole di funzionamento siano ben
chiare: se l’assegnazione dei compiti non è limpida, si sarà autorizzati a operare
lascivamente. Ma lo zelo può venir meno inoltre nel caso in cui non si
condivida appieno uno o più elementi del progetto. Chi è restio a esprimere
dichiaratamente la propria opinione, magari perché vittima di esperienze
precedenti traumatiche in tal senso, non farà emergere il disaccordo su quanto
non approvato, senza peraltro assumere come accettabili le decisioni altrui. Si
evitino le ambiguità, consistenti talvolta nel non dare seguito alle
disposizioni concordate, talaltra nel farle passare come frutto unicamente del
proprio ingegno. Pur essendo comprensibilmente difficoltoso per chi non è
abituato, confrontarsi in maniera costruttiva nell’incontro fra punti di vista differenti
è la chiave di successo per qualunque team.
Un’occasione di crescita cui a volte si rinuncia pur di non impiegare troppe
energie fisiche e mentali, specie se si teme di perdere o di dover ammettere
gli errori commessi. Il risvolto della medaglia è nondimeno peggiore, dacché
l’apparente armonia respirabile non è che una finzione artificiale,
silenziatrice di potenziali discussioni spontanee. Purché non si dia spazio ad
attacchi personali, il conflitto costruttivo, incentrato sulle idee e sui fatti,
serve a far considerare ogni membro sul medesimo piano degli altri e a far detonare
di conseguenza una fiducia fondata sulla vulnerabilità reciproca. Infine, che
si alimenti un clima proficuo nel rispetto vicendevole. La socialità è un
bisogno primario dell’essere umano, ma altrettanto lo è la sicurezza. L’ignoto
e l’imprevisto destabilizzano, e non si sa mai con certezza come saranno le
proprie e i propri colleghi, seppur temporanei. A nulla valgono i talenti
singoli e i curricula chilometrici
quando l’ambiente del team non è sano:
lungi dall’essere la mera somma dei suoi componenti, quest’ultimo appare essere
una realtà complessa in stretta relazione con i personali livelli di
autoconsapevolezza. In presenza di un’atmosfera stimolante, i membri non possono
che essere motivati a lavorare di squadra; in presenza, per converso, di
un’atmosfera tossica, gli obiettivi non diverranno che una chimera irraggiungibile
e nemmeno così tanto desiderabile. Gli individui che si ritrovano a operare di
comune accordo in un progetto di cooperazione possono portare appresso
caratteristiche ed esperienze diverse, ma necessitano di valori e traguardi comuni.
E si migliora persino nella propria soggettività, perché si trasformano in
realtà situazioni altrimenti irrealizzabili individualmente. Un pericolo da
fugare è il soffocamento delle singole capacità proprie o altrui, per il timore
di errare o suscitare invidia; in un caso del genere, paradossalmente, i
singoli farebbero di più e meglio se non inseriti in un gruppo. Aiutare a
sprigionare le individualità costituisce un ottimo velocizzatore di processi,
se non accade si prova insoddisfazione e ci si orienta piuttosto
sull’alimentazione di conflitti latenti non gestiti apertamente. E’ auspicabile
che un ambiente sano di collaborazione spinga al confronto diretto,
abbandonando la paura di poter perdere alcunché.
Aver impostato con adeguatezza il lavoro equivale a essere quasi a metà strada.
Nella conduzione dei tavoli, tuttavia, nuove attenzioni e accortezze da
riservare ai componenti appaiono irrinunciabilmente. Nessuno impone che tutti i
membri debbano per forza prendere parte a ogni singola riunione: si inviti soltanto
chi potrà trarne beneficio e risulta indispensabile. Non bisognerebbe
prescindere da incontri ben focalizzati sul punto da trattare, nel minor tempo
e nel miglior modo possibile, con un dettagliato programma da mettere in
condivisione per dare tempo ai membri partecipanti di prepararsi a dovere e
formulato secondo interrogativi che stimolino la creatività individuale; da non
trascurare il giorno e l’orario di convocazione, meglio se a metà settimana e a
metà mattinata, ma possibilmente non una sola volta ogni 7 giorni. Mai più di
45 minuti di seguito e, se si ritiene necessario proseguire, che la pausa sia
abbastanza lunga da riprendere le forze perdute. Il lunedì risente del week-end appena trascorso ed è rivestito
di una connotazione malinconica, mentre il venerdì si è provati per il duro
lavoro e troppo proiettati verso il riposo dei giorni successivi. Non è un
mistero che nella suddetta fascia oraria, quando si è tutti più freschi e
liberi delle incombenze che si accumulano con l’avanzare delle lancette, la
produttività è spiccatamente più alta. Privilegiare cifre tonde, per gli orari,
ha il vantaggio di renderli memorizzabili con maggiore facilità. La comodità
delle teleriunioni è certo non sottovalutabile, ma non è benefico ridursi all’online sempre e comunque: una
ragionevole alternanza è piacevole e motivante. Che si sia online od offline,
un’imposizione generale sempre valida dovrebbe essere quella di escludere le
distrazioni e rimanere concentrati sul punto; niente cellulari et similia se non richiesti per i
compiti da eseguire. In presenza, non si comprende per quale oscuro motivo
imperi tuttora l’abitudine di riunirsi in posizione seduta; stando in piedi,
per converso, ci si può esprimere con più efficacia ed efficienza, tenendo alto
l’umore, con l’accorgimento di non alimentare atteggiamenti di superiorità o
inferiorità dettati dall’aspetto fisico. Le statistiche sulla partecipazione
alle videoconferenze sono a dir poco disarmanti e ci autorizzano a concludere
che dedicarsi ad altro in contemporanea costituisce quasi la norma per chiunque.
Accortezze tecniche - rimanere con video e audio accesi - e relazionali - incentivare
un clima familiare e rispettare il programma - sono utili strumenti di
mitigazione. Nel corso dell’incontro, avere qualcuno che annoti in un verbale le
discussioni avvenute e le decisioni prese, per farle circolare al suo termine a
beneficio degli intervenuti e degli assenti, sarebbe opportuno; ma in realtà lo
svantaggio ricade sul quasi inevitabilmente inesistente contributo alla
discussione da parte della persona designata, meglio quindi fare un uso
intelligente di software dedicati
alla registrazione con conseguente trascrizione automatica. Se inoltre si
inizia con 5 minuti di conversazione rilassata e si termina con 5 minuti di briefing sul da farsi, il gioco è fatto.
Da rigettare senza se e senza ma la moda a sufficienza diffusa consistente nel
dare la parola unicamente a chi tiene in mano un oggetto che funge da
segnalino, vietando a tutto il resto della platea di intervenire; oltre a
essere una ridicola pratica mutuata da ambienti di certo più infantili, è
deleteria nella misura in cui non educa il gruppo al rispetto del parlante e
non stimola l’autentico confronto che dovrebbe adombrare l’animus essenziale dell’incontro. Non di rado può capitare di
trovarsi di fronte a team multigenerazionali,
si calcola che nelle aziende possono attualmente convivere fino a quattro
generazioni di individui profondamente dissimili nei valori e nelle ambizioni. Baby boomer, X generation, millennial,
Z generation: è molto forte il rischio
della loro contrapposizione. I baby
boomer, nati fra il 1946 e il 1965, hanno attraversato l’immediato secondo
dopoguerra e il loro nome richiama i relativi boom demografico ed economico; il loro mondo era completamente
diverso rispetto a quello dei loro genitori e sono stati protagonisti di
rivoluzioni socioculturali senza precedenti; rappresentano attualmente il
numero più nutrito di leader in
contesti aziendali, come frutto delle politiche pensionistiche europee; il loro
approccio al lavoro è classico, cercano sicurezza, dedicano molto tempo al
proprio mestiere, sono competitivi ed esperti per le mansioni di cui si
occupano. La X generation, cioè i
nati fra il 1966 e il 1980, è formata da chi è cresciuto in un’epoca di
smantellamento progressivo della società nei suoi nuclei precipui, all’insegna
dell’intrattenimento a tutti i costi; essi non sono abituati a rivestire
posizioni di comando né nel pubblico né nel privato; sono stati tendenzialmente
i protagonisti dell’introduzione dell’informatica nei contesti lavorativi;
sanno bilanciare l’occupazione con la vita familiare, hanno uno stile
democratico di gestione dei gruppi e preferiscono non controllare in modo
pedissequo le attività dei propri dipendenti. I millennial, nati fra il 1981 e il 1996, sono i cosiddetti “nativi
digitali”, perché sin dall’infanzia hanno convissuto a stretto contatto con gli
strumenti elettronici; la maggior parte delle e dei lavoratori al mondo
appartiene a siffatta categoria, con i social
media come mezzo privilegiato di comunicazione; non amano i lavori
meccanici e ripetitivi, si aspettano che le colleghe e i colleghi superiori
valorizzino la loro creatività, si trovano in difficoltà se non si sentono
seguiti quasi step by step e sono
orientati al raggiungimento dei risultati; sono disposti a trasferimenti
d’azienda quando si imbattono in circostanze più attrattive e più affini ai
valori in cui credono. La Z generation,
cioè i nati fra il 1997 e il 2012, racchiude individui provenienti da disparate
zone del pianeta, ciascuno con la propria cultura; essendo cresciuti con il Web già fortemente avviato, esprimono notevoli
preferenze riguardo ai social media
utilizzati, in parte per distaccarsi da possibili controlli effettuati online dai genitori; sono avvezzi alla
velocità e quasi istantaneità nella comunicazione, così come alla totale
accessibilità delle informazioni soprattutto con i dispositivi mobili; idealisti
e visionari, non disdegnano lotte di maniera nella volontà di battersi in
difesa dei propri valori e credono nelle potenzialità del dialogo per risolvere
i conflitti; sono alla ricerca di sicurezza e stabilità, svolgono in
contemporanea più occupazioni perché non credono nel cosiddetto posto fisso e
sono pronti a vivere cambiamenti di carriera in base alle offerte ricevute. In
un simile marasma di generazioni, sta all’individuo leader della squadra agire al fine di evitare le incomprensioni per
non compromettere la scorrevolezza delle mansioni. Il leader, figura dalle caratteristiche
non negoziabili, è colei o colui al quale è demandata la guida, un servizio che
si rende alla comunità assumendosi la responsabilità di successi e insuccessi;
non si impone su alcuno, bensì è riconosciuto dalla totalità delle persone come
un facilitatore dei processi. Nel particolare, il suo compito è la gestione
delle risorse disponibili occupandosi degli sviluppi, delle contingenze e delle
pianificazioni. Deve saper trovare soluzioni semplici ai problemi complessi,
poiché non esiste solamente un approccio giusto per ottenere il risultato
sperato. L’abilità di reperire e analizzare, con un pensiero divergente, le
varie informazioni disponibili prende il nome di problem solving, indirizzato alla definizione della migliore scelta
possibile in base ai fatti conosciuti, al contesto di riferimento e alle
conseguenze ipotizzate. Nel mondo di oggi gli scenari si compongono secondo vie
sempre più intricate, perciostesso è inefficiente limitarsi a una
riproposizione di strade già tracciate in passato. Vitale è, purtuttavia, una
trasposizione di tale sensibilità all’intero team: l’unione fa la forza! Proprio per la volatilità del mondo
odierno e delle sue sfide, occorrono abilità di giudizio e analisi. Una certa
elasticità mentale consente di cogliere meglio connessioni e referenze,
allenandosi a destrutturare le questioni che si presentano, decodificarne gli
elementi e analizzarli con occhi nuovi; da simili meccanismi si trovano a
sorgere legami inattesi fra progetti o parti di un progetto. L’intelligenza
emotiva, poi, andrebbe forse al primissimo posto, invero. Non vi è settore in
cui riconoscere, utilizzare, comprendere e gestire con consapevolezza le
emozioni proprie e altrui non faccia la differenza. La scienza ci viene in
soccorso da decenni su questo fronte, fornendoci strumenti per diventare protagoniste
e protagonisti dello stato emotivo in cui ci si trova e virarlo a piacimento a
seconda dei propri desiderata;
d’altro canto, ci consegna gli strumenti per non nuocere emotivamente agli
altri e anzi aiutarli a ritrovare il benessere psicofisico perduto. Orientato
al risultato, il leader incarna la
stessa attitudine nei confronti della competizione. Si vince una volta sola, al
termine dei lavori, ma quella vittoria dipende da azioni quotidiane svolte con
eccellenza senza - quasi - mai deflettere. Veniamo all’abilità di
comunicazione, da intendere nella più ampia accezione concepibile: persuadere i
membri del gruppo, informare i soggetti esterni, sfruttare le potenzialità
della rete. Nulla andrebbe nascosto o sottaciuto, dacché qualcun altro potrebbe
di propria iniziativa decidere di divulgarlo surclassando la figura di guida,
con i relativi disguidi nei rapporti fra i ruoli. Privandosi inoltre di una flessibilità
cognitiva, non potrebbe in alcun modo profittare dei cambiamenti inesorabili
con strategie vòlte alla crescita della squadra e alla ritaratura del progetto,
di fatto una sfida da rimodulare in leva obbligata di innovazione. Non è un
segreto che l’iniziativa personale e la capacità di prendere decisioni si
misurino essenzialmente nelle contingenze non proficue. Finché tutto procede
secondo le aspettative, le acque calme accompagnano con delicatezza il remeggio
dell’imbarcazione; ma appena si scatena la tempesta, è l’abile capitano a
segnare la differenza per salvare la vita all’equipaggio. Veder tentennare chi
è al comando non è affatto rassicurante e i danni dell’imprevisto rischiano di
moltiplicarsi a cascata. E se si dovesse fallire? Fare sempre tutto giusto non
è umanamente pensabile, eppure la buona notizia è che non è neppure
desiderabile per il bene del team. E’
dagli errori di uno che tutti gli altri possono apprendere, è dai passi falsi
compiuti che si innescano corsi di miglioramento. Ciò che conta, lasciata alle
spalle la difficoltà, è mantenere salvo quanto di positivo si è esperimentato e
riorganizzare in termini maggiormente adatti la squadra di lavoro. In una
parola: resilienza, in reazione al fallimento. Quanto finora ampiamente
descritto, purtuttavia, vano sarebbe se deficitario fosse il sostrato vitale di
un qualunque rapporto umano votato alla cooperazione; l’etica della
comunicazione, se non assurge a linfa e bandiera delle relazioni interne al
gruppo, mai potrà essere applicata all’esterno di esso. “Comunicazione” da
intendere non come “informazione” bensì come “compartecipazione”, nel senso
della dischiusura di uno spazio comune di relazione fra interlocutori che semplicemente
ci sono e sono consci della presenza altrui. Il cominciamento dell’interazione,
idealmente, prevede una formulazione condivisa delle regole da rispettare,
assumendo di impegnarsi a non trasgredirle e promettendo di utilizzare lo
strumento del linguaggio senza inganni. In assenza di un rapporto fiduciario
non esisterebbe alcun atto comunicativo, per definizione. Verità, che è
corrispondenza tra ciò che è e ciò che si afferma, e veridicità, che è
corrispondenza tra ciò che si pensa e ciò che si afferma, sono faro
intransigente per lo stare insieme, di concerto con l’attribuzione al messaggio
di un senso comprensibile all’altro. La forza dell’etica sta nel suo riferirsi
al diritto naturale sovrapponendosi alle transitorie morali, è il principio
motore dell’agire umano che riflette su di sé e si interroga sui propri valori.
Non basta il mero traguardamento se gli esiti rimangono circoscritti tra le mura degli uffici. La cittadinanza possiede il diritto di essere informata sui procedimenti attivati e conchiusi da chi stipendia con il proprio denaro, ugualmente i promotori di forme associative dedite al sociale rivestono il dovere di far conoscere al pubblico le iniziative cui si è lavorato. Se pure in corso d’opera è degno di lode l’aggiornamento costante verso l’esterno, questo si rende necessario al termine dei tavoli. Rispettare gli obblighi di legge non comporta l’automatica esclusione di operazioni non previste: ciò costituisce un classico caveat per le nostre amministrazioni, duro da abbattere. La comunicazione deve essere un’autoimposizione innanzitutto etica, a mo’ di giustificazione nei confronti della comunità per il ruolo ricoperto. Abbandoniamo la riduzione ai soliti comunicati istituzionali per mezzo stampa o etere, e organizziamo eventi dal vivo per stare in mezzo alla gente mostrando di persona quanto si è potuto cavare dal buco, invitando gli altri Enti del Terzo Settore afferenti al medesimo territorio; a qualcuno di loro potrebbe balzare in mente l’idea di intraprendere un percorso simile di coprogettazione. La scelta delle e degli interlocutori, a stretto contatto con la cittadinanza, andrà svolta con accurata oculatezza. Nel “mettere in comune” i messaggi da condividere non ci si potrà dimenticare che perfino la sola presenza comunica senza volerlo: non-verbale e paraverbale la fanno da padroni. Parlare in pubblico implica l’attivazione di una relazione con l’altro, che è sincera esclusivamente se il mittente si premura di essere comprensibile e il destinatario si concentra sul messaggio in arrivo. E’ l’incontro o scontro di due mondi, in alcuni casi sideralmente lontani; la condivisione di un codice comune non si presenta come un’opzione quanto come una costrizione. L’invio involontario di messaggi questionabili od offensivi, non necessariamente verbali, è da evitare se non si vuole mandare all’aria tutto il lavoro precedente svoltosi in team. Olisticamente la comunicazione dell’esserci, nella pretta presenza, non è che il comportamento che assumiamo. Si può semplificare sostenendo che, per approssimazione, nella trasmissione di un messaggio il 55% dipenda dal non-verbale, il 38% dal paraverbale e il 7% dal verbale? No, decisamente: è una bufala. Tutto parte da uno studio degli anni Settanta, in cui quelle testé riportate rappresentano le percentuali di influenza che i tre canali esercitano sul destinatario quando almeno uno di essi è discordante dagli altri e il messaggio ha una valenza emotiva. L’intuizione ci viene in aiuto, poiché se qualcuno asserisce di provare una certa emozione ma il suo volto ne tradisce un’altra allora siamo portati a fidarci più dell’espressione che delle parole. D’altronde altre ricerche hanno messo in luce come una sparutissima percentuale di popolazione sia naturalmente agile nella corretta interpretazione del non-verbale. L’equivoco scaturisce dall’uso improprio che individui pseudoformatori e guru di ogni sorta ne hanno fatto, generalizzando la regola estrinsecata a casi non conformi alla sua formulazione originaria. Sì, la maggior parte della comunicazione - ossia dell’essere presenti in un dato luogo con delle date persone - non è verbale, ma quasi nessuno è fornito delle competenze fondamentali per afferrare il significato di messaggi indiretti lanciati dalla voce e dal corpo. Niente da fare, è la parola per Homo sapiens il mezzo privilegiato di trasferimento culturale. Ne deriva un’assunzione di responsabilità che non trova paragoni in altri àmbiti della vita: ogniqualvolta entriamo in relazione con il prossimo semplicemente essendoci, volenti o nolenti diveniamo responsabili della stessa relazione; e se apriamo pure bocca, non ne parliamo! L’abilità di rispondere, etimologicamente, si traduce nella consapevolezza che il successo dell’atto linguistico e metalinguistico è dipendente dal mittente in maniera esclusiva, sotto la sua responsabilità. Il destinatario ha il diritto di non comprendere e la facoltà di richiedere delucidazioni, in effetti necessarie se sottoposte come feedback. Tali delucidazioni, nondimeno, possono essere o apparire attacchi o critiche di diversa intensità. Compito della e del comunicatore è riuscire a fornire una risposta soddisfacente senza scadere nella negazione o, peggio, nell’aggressività. Sgradevole sarebbe notare un’incoerenza manifesta tra l’apparente bontà delle parole e l’evidente fastidio della mimica facciale, non sempre gestibile in quanto vi sono movimenti involontari che sfuggono perfino alla scaltrezza del più esperto. Il segreto è effettuare a monte un serio lavoro di gestione emozionale per affrontare con serenità i contesti conflittuali. Allo stesso tempo, classicamente alcune posizioni del corpo e atteggiamenti cinestesici vengono ritenuti espressione di precise intenzioni inconfessate; evitare di farne uso mette al riparo dai fraintendimenti. Ribaltando il punto di vista, se la presentatrice o il presentatore del progetto è un professionista dovrà porre attenzione all’accumulo di simili segnali, che se più d’uno potranno ragionevolmente essere intesi secondo la tradizionale rappresentazione. Silenzi imbarazzanti, sguardi dubbiosi, tic esagerati... Non è mai troppo tardi per ovviare al disagio e ricalibrare la marcia. In generale, i messaggi fisici sono classificabili in tre tipologie: scarico di tensione, rifiuto e gradimento. I primi segnalano uno stato di imbarazzo, ansia, stress; grattamenti, dondolii, sorrisi forzati, schiarimenti di voce e variazioni neuro-fisiologiche percepibili dall’esterno. I secondi esprimono un categorico rigetto dell’argomento o del parlante; allontanamenti fisici, incupimenti del viso, posizioni di difesa, sfregamenti del naso, distanziamenti degli oggetti. I terzi significano una incondizionata attrazione nei confronti dell’argomento o del parlante; movimenti delle labbra, avvicinamenti fisici, autoaccarezzamenti. Alla sfera del paraverbale, invece, pertengono il tono, il ritmo, il volume e il timbro vocali. Modulando la voce si possono suscitare le emozioni desiderate nel pubblico, in base agli obiettivi auspicabilmente raggiungibili; così come un sapiente utilizzo di pause e silenzi arricchisce il messaggio e può aiutare la concentrazione. Ascolto attivo e lettura del feedback sono gli strumenti fondamentali per tarare il rapporto diretto nel caso di domande e interventi spontanei. Ascoltare, non attendere il proprio turno per riprendere la parola; ascoltare, a costo di ignorare l’innato bisogno di sicurezza; ascoltare, rischiando di approcciare visioni del mondo distanti anni luce dalla nostra. Lungi dalla pura percezione delle parole e dal mero riconoscimento delle sfumature para- e non-verbali, un trucco dell’ascolto attivo è appunto partecipare attivamente all’interlocuzione. Da un lato, ripetere quanto si è appena udito sintetizzandolo e parafrasandolo; dall’altro lato, porre le domande giuste nei momenti più opportuni, consce e consci che esse possono presentarsi come chiuse o aperte. Il bravo comunicatore sa inoltre distinguere, fra queste ultime, le dirette - che mirano con immediatezza alla questione - , le indirette - più generiche e libere - e quelle di stimolo - il cui scopo è invitare l’altro a parlare - . La calibrazione della manipolazione in tali contesti, attuabile con interrogazioni già contenenti in nuce le risposte o volutamente dirottate su alcuni aspetti di interesse, sta all’etica professionale e alla morale personale. Entrare in comunicazione equivale a dismettere le proprie mappe mentali nel confronto con quelle altrui. Alla stregua del Dna, è decisamente impossibile che due persone condividano alla perfezione il medesimo modo di interpretare la realtà. Intuire i modi di ragionare e di emozionarsi, ma anche le idee, i bisogni e i desideri di chi abbiamo di fronte, è preludio imprescindibile per aiutarci a confezionare il miglior messaggio che sia possibile per la sua comprensione e accettazione. Sappiamo ormai che ciascuno di noi adopera, privilegiandolo, un senso specifico nella decodificazione degli stimoli esterni. Chi tendenzialmente ha un’intelligenza visiva ricostruisce nella mente il mondo in base a ciò che vede, ricorda mediante le immagini, utilizza metafore visive, guarda l’interlocutore negli occhi, parla velocemente, gesticola come per tracciare in aria i concetti e tiene tanto alla cura dell’aspetto; essendo che il suo linguaggio afferisce alla sfera del guardare, parlandoci sarà conveniente fare uso delle caratteristiche testé descritte. Chi tendenzialmente ha un’intelligenza uditiva ha contezza del mondo attraverso i suoni, sa usare eccellentemente l’arte dell’oratoria, non ha l’abitudine di guardare negli occhi, assume posizioni rilassate mentre parla, tiene una cadenza ritmata e regolare pure nel respiro, soppesa ogni singola parola e addirittura le pause, adopera termini onomatopeici, il suo timbro è melodioso ed è portato a inclinare la testa come per porgere l’orecchio all’ascolto; l’idioletto di un uditivo è ricco di vocaboli legati al sentire ed è soprattutto estremamente preciso, razionale e analitico, sicché mette conto padroneggiare il proprio tono di voce e non usare parole a casaccio. Chi, infine, ha tendenzialmente un’intelligenza cinestesica fa esperienza del sensibile in maniera spintamente diretta e pratica, ama la manualità, memorizza grazie alle sensazioni provate, non sa nascondere le emozioni, si muove nello spazio con scioltezza e pacatezza, porta spesso lo sguardo verso il basso e cerca il contatto fisico con la controparte; acciocché si catturi la sua attenzione, è preferibile proporre anche linguisticamente dimostrazioni attive di quanto affermato. Nei primissimi istanti si dovrebbe essere in grado di classificare, secondo la presente categorizzazione, il destinatario del messaggio, non scadendo tuttavia in una generalizzazione schematica ideale e non reale. Peraltro non di rado vi possono essere mescolanze fra l’una e l’altra proposta, noi stesse e noi stessi potremmo variabilmente mutare atteggiamento a seconda delle situazioni, ma adattare immediatamente la comunicazione al ricevente ci mette al sicuro dall’insuccesso. Questi deve percepire il mittente come un individuo simile a se stesso, cosa che è simulabile incarnandone il comportamento. Alla fine avremo portato a casa non unicamente una proficua trasmissione di informazioni, bensì anche una fruttuosa campagna di sensibilizzazione all’impegno profuso nello sviluppo territoriale.
Mi è piaciuto il valore che è stato dato agli aspetti comunicativi e alla costruzione di un ambiente collaborativo per il successo di progetti comuni. Mi è piaciuto anche il fatto di riuscire a creare un team coeso con obiettivi condivisi assieme a una adeguata formazione, comprendente training e coaching al fine di migliorare competenze individuali e collettive. La comunicazione etica e l'ascolto attivo (condivido pirnamente) sono elementi fondamentali insieme alla definizione chiara di ruoli, obiettivi misurabili e tempistiche. Infine, condivido anche che la fiducia reciproca e il rispetto delle diversità multigenerazionali, all'interno di un team, sono essenziali per evitare conflitti e promuovere il successo.
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